Di: Sergio Palumbo

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Il romanzo della Pesaresi, come ogni valido thriller, crea costantemente nel lettore l’angosciosa attesa di una rivelazione, che le atmosfere cupe e ossessive preannunciano. La vicenda non si snoda in un susseguirsi di azioni, ma si avvolge a vite su se stessa, come un trapano che penetra nell’animo dei personaggi, sommuovendo ricordi e rimorsi che non riescono a trovare soluzione e riposo. Il loro denominatore comune è la morte: quella straziante di un figlio subita come un’atroce ingiustizia; quella di un bambino innocente procurata per abulica resa alla cinica voglia di nuovi diversivi. Per uno scherzo beffardo della sorte si incrociano due mondi, due universi di dolore e di colpa che in realtà non hanno interagito nel determinare le rispettive sofferenze, ma che finiscono con l’avere in comune lo stesso destino. Quando le due esistenze si sfiorano – quella della madre che ha perso l’unico figlio e cerca vendetta; quella del celebre attore le cui deviazioni, retaggio di violenze subite, lo conducono a causare involontariamente la morte di un bambino – sembra che una scintilla di amore o di carità umana possa salvarle. Ma non è così. Entrambi corrono, forse non del tutto ignare, verso la morte che verrà inflitta dall’unico personaggio assolutamente amorale, che nel romanzo incarna la cinica banalità del male.

Lo stile ricercato dipinge con raffinati colori interni sofisticati e originali, che rivelano un gusto femminile molto personale e interessante, ma con la stessa intensità illumina di fredda luce i cupi labirinti dell’anima entro cui si smarriscono i protagonisti.

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