Di: Sergio Palumbo

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Quando si ha tra le mani un libro di Michela Franco Celani si ha l’automatica certezza che non si resterà delusi: già dalla lettura di “Ucciderò mia madre” ci si poteva render conto della carica umana e della profonda sensibilità della scrittura di questa talentuosa autrice. Ma il breve ed intenso “La stanza dell’orso e dell’ape” cattura così tanto, fin dalle prime battute, che non è possibile lasciarlo prima dell’ultima pagina.

E’ il diario di una giovane madre che vive l’esperienza più straziante: la malattia della sua bambina, con la consapevolezza – che non esclude la speranza, anche contro ogni evidenza – che non potrà più guarire e che un giorno toccherà a lei entrare in quella stanza “dell’orso e dell’ape” (pietosa fantasia dell’ospedale pediatrico!) da cui si esce solo in una piccola bara. Eppure, l’amore materno deve trovare la forza di trasformare in favola ciò che una bimba non può capire, l’atrocità di un male devastante, che diventa la ranocchia imprudente entrata proditoriamente nel corpicino e che un giorno i medici estraranno, perché lei possa ancora correre e giocare come tutti i bambini. Il dramma è reso più tragico dalla solitudine di questa giovane mamma, che non ha un compagno ed è priva di qualunque sostegno che non sia affidato alla solidarietà della gente, non sempre prodiga di aiuto e, soprattutto, di comprensione. E poi ci sono le inadempienze, le superficialità, i preconcetti della classe medica, i cui ritardi aggravano le conseguenze del male e ne ratificano l’inesorabilità. Interessante, a questo proposito, è il ricorso estremo della protagonista alla famosa cura contro il cancro del professor Di Bella, che tante speranze e tante polemiche e perplessità suscitò in Italia ed è ancora un punto interrogativo per l’opinione pubblica profana. Questa figura di medico controcorrente, spesso calpestato fino al pubblico vituperio, ha nel racconto una nobiltà malinconica che colpisce quanti, un tempo, seguirono le accese diatribe sulla sua persona.

La vicenda, rivissuta e narrata in prima persona dall’autrice, è reale: la vera protagonista è Patrizia Miotto, che figura quale coautrice del testo. Questa scrittura tutta al femminile non ha niente del patetico a buon mercato, ma nella sua stringata essenzialità va dritta all’animo: non solo flusso del cuore, ma anche esercizio della mente che ha bisogno di ordinare, chiarire, approfondire i momenti di quell’esperienza per metabolizzare il dolore, altrimenti così assurdo nella sua gratuità.

Un possibile riscontro nella più recente produzione letteraria può essere individuato nell’opera della Allende, in ricordo della figlia Paula,anche lei morta di un male incurabile. Ma la nostra autrice, nella nuda espressione di quella maternità impietrita dal dolore, senza aggettivi né divagazioni, risulta decisamente più efficace.

Link: il sito di Ugo Mursia Editore – www.mursia.com