Di: Alessandra Staiano

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C’è qualcosa che, una volta rotta, non tornerà mai più come prima. E se a provocare la frattura è la guerra- con tutto l’orrore che si porta con sè- di quella ferita non si parlerà neanche più. Si cercherà di fare finta che sia tutto passato, che sia possibile vivere una vita normale. Come quella di tutti. Perché la ferita è troppo profonda e il dolore troppo grande. E il dolore allontana. Se non è elaborato, rende impossibile qualsiasi comunicazione. Anche con chi si ama di più.

La Ciociara di Annibale Ruccello, in scena al Teatro Bellini di Napoli fino a domenica 26 febbraio 2012 per la regia di Roberta Torre, indaga esattamente quella frattura e quel dolore. Cogliendone le cause, laddove ripercorre per flash-sequenza la nota trama del romanzo di Alberto Moravia resa celeberrima dal film di Vittorio De sica grazie anche e soprattutto all’interpretazione da Oscar di Sofia Loren. Ma soprattutto raccontando come è andata a finire. Come la madre Cesira, intensamente interpretata da Donatella Finocchiaro, e la figlia Rosetta, resa da una brava Martina Galletta, abbiano continuato la loro vita dopo l’orrore vissuto. E se il film di De Sica si chiude con l’abbraccio e le lacrime delle due donne- come a dire che nulla potrà allontanarle- il testo teatrale di Ruccello inizia con loro due vicine fisicamente ma lontanissime l’una dall’altra. Cesira e Rosetta, nella chiave di lettura tipicamente ruccelliana, sono due figure “deportate” che devono fare i conti con la piccola borghesia romana del dopoguerra (ceto medio si direbbe oggi) che l’una- la madre- disprezza e a cui l’altra -la figlia- aspira forsennatamente. Cesira è “deportata” dalla campagna in cui è nata e cresciuta alla città, le cui leggi non ha mai imparato ad accettare. Rosetta è stata “deportata” dall’innocenza dell’infanzia alla corruzione dell’età adulta, in modo brutale e in un tempo lontano, impossibile per lei da rievocare. A rievocarlo, però, c’è Cesira in un dialogo, contemporaneamente onirico e concreto, con il passato e i suoi fantasmi.

La scelta registica di mescolare il piano puramente teatrale con immagini proiettate come al cinema si rivela particolarmente indovinata. Annibale Ruccello, scomparso tragicamente a soli 30 anni nel 1986, riadattò il testo di Moravia (dopo averne ottenuto il permesso) appena un anno prima dall’incidente stradale che lo strappò alla vita e al teatro cui avrebbe potuto dare ancora moltissimo. Lo spettacolo al Bellini ne è una chiara dimostrazione, ove mai ci fosse ulteriore bisogno di scoprire che il nome di Ruccello si iscrive di diritto tra i maggiori autori del Novecento italiano e non solo. Il testo è sostanzialmente un inedito: venne messo in scena solo una volta quando l’autore era ancora in vita. Perderlo adesso, anche in virtù della sua forte attualità, sarebbe davvero un peccato grave per chi ama il teatro.

Link: www.teatrobellini.it