Di: Alessandra Staiano e Sergio Palumbo

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La musica dell’errare, la musica dell’errore. E’ lo stesso Vinicio Capossela a dare la migliore definizione di questo rebetiko, di questo «blues greco», di questa musica che nasce dalle crepe dell’anima e cerca di riempirle in qualche modo che il cantautore ha scelto di incrociare e di sperimentare. O forse è stato lo stesso rebetiko a incrociare e scegliere Capossela che, sbarcato sul finire degli anni ’90 in Grecia, sentì suonare, chiese che musica stessero facendo lì e si imbatté in una scoperta che ha covato dentro di sé per una quindicina d’anni o giù di lì. Episodio che Capossela racconta sul palco, nel tour che il 14 e il 15 novembre2012 hafatto tappa tra i velluti rossi e gli stucchi d’oro del Teatro Bellini di Napoli, mentre intorno ci sono gli altri musicisti, ginnasti come lui, provetti sollevatori di emozioni. E attraverso quella musica, quelle parole a volte italiane, a volte greche, ti pare di esserci pure tu dentro in uno di quei localacci pieni di fumo e di vino, velluti e stucchi scompaiono (le poltrone della platea lo avevano già fatto per trasformare il teatro-gioiello in una sorta di «Bellini Dance Hall») e sale la voglia di bere, fumare, ballare, appartenere a quella strana consorteria. Sconosciuta e nota da sempre, allo stesso tempo, perché tocca corde che sono assai comuni nelle storie e nelle musiche di chi ha vissuto con il mare a un passo. Napoli, Salonicco o Smirne, poco importa.
Nei 15 anni passati dall’incontro fortuito con il rebetiko, intanto, Vinicio Capossela di cose ne ha fatte, scritte, suonate e cantate tante. Ne ritrovi molte, moltissime in questo concerto che mette da parte le scenografie e i trucchi di circhi, oceani inventati, galeoni e balene che Capossela aveva proposto negli spettacoli degli ultimi anni. Affascinanti e suggestivi, ma talvolta con il rischio di diventare armi di distrazione rispetto alla musica. Stavolta, no. Stavolta c’è la musica e basta. Vinicio invita il pubblico in una immaginaria palestra, con delle vere e proprie spalliere dietro i musicisti, per fare un po’ di sana ginnastica. Per gli sforzi più impegnativi consiglia di indossare un bel paio di baffi, come quelli che sfoggia sul palco. E mentre ci si proietta in questa inusuale attività ginnica, si rinnova, con forme nuove ma con immensa naturalezza, l’incanto della musica di Capossela. Ci sono le sue canzoni arrangiate sul ritmo del rebetiko che diventano nuove preziose invenzioni. Ci sono gli incontri, come quelli con i Posteggiatori Tristi (la prima sera) o quello con Massimo Ferrante che intona un canto alla memoria di un anarchico antifascista condannato sette anni dopo la fine della guerra (Il Galeone), c’è l’omaggio che Capossela fa a colui che chiama «un anarchico genovese» (Quello che non ho di Fabrizio De André) e, restando in tema di anarchia, Vinicio rispolvera Lavorare con lentezza di Enzo Del Re. Ci sono i brani del vasto repertorio, rielaborati in chiave rebetika (Contrada Chiavicone, Tanco del Murazzo, Contratto per Karelias, Corre il soldato, Scivola vai via, Non trattare) che fanno ballare il pubblico e quelli che lo fanno struggere di nostalgia (Non è l’amore che va via, Con una rosa, l’incantevole Ultimo amore, che chiude il concerto), gli immancabili grandi successi Marajà e Che cossè l’amor che fanno esplodere il Teatro Bellini. E poi c’è soprattutto Vinicio Capossela in questo viaggio che fa tappe dalle parti del ritmo, della politica, dell’amore. Un viaggio che è anche una scoperta, come sempre i viaggi veri dovrebbero essere: c’è un’Europa dei popoli. Che viene da molto, ma molto prima, di quella della moneta.

Link: il sito del Teatro Bellini di Napoli – www.teatrobellini.it