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Dal 19 al 22 dicembre 2013

Al Piccolo Bellini

Pippo Delbono

RACCONTI DI GIUGNO

Incontro con se stesso

di e con Pippo Delbono

suono: Pepe Robledo

Una sorta di diario di bordo, un’introspezione sul senso nascosto delle relazioni, sul lato dei desideri non espressi ma mostrati, sulla curiosità per gli altri, il filo rosso degli invaghimenti, la coscienza di una bellezza senza confini nelle storie, l’ardore non solo etico nelle scene della vita e nelle scene del teatro, l’estasi delle cose che ti perdono e che gli altri non ti perdonano, quel qualcosa di se stesso mai detto forse perché mai chiesto. Le coincidenze (tante) del mese di giugno, il mese in cui sono nato.

Un attore-autore si confessa senza reticenze e con pudore in una dinamica di cronache e lampi della memoria, zigzagando tra le avventure della vita scenica e vissuta.

Il diario intimo di Pippo Delbono

Questo non è uno spettacolo, anche se potrebbe diventarlo, dice per cominciare Pippo Delbono. Cosa sono allora questi Racconti di giugno che l’attore ci propone dal piccolo palcoscenico del teatro Belli? Un “incontro con se stesso”, recita il sottotitolo. Un’esibizione, potremmo replicare, nel senso proprio di una personale emozionante messa a nudo di sé in quanto uomo di teatro, della necessità che sta dietro al suo lavoro.

Invitato dalla rassegna “Garofano verde” ad affrontare il tema sdrucciolevole dell’amore, Delbono si abbandona a una controllata improvvisazione a soggetto in cui arte e vita si confondono. O forse coincidono. E non potrebbe essere diversamente, conoscendo il posto di rilievo occupato nel suo teatro dall’elemento autobiografico, fin dal primo spettacolo, già rivelatore, Il tempo degli assassini, realizzato in coppia con Pepe Robledo, a metà degli anni 80: l’uno in fuga da una storia d’amore e di morte, violenta e conflittuale; l’altro da un lontano paese sudamericano dove comandavano i generali. E da lì giù verso quell’altro straordinario Barboni, nato dall’incontro dell’attore con nuovi compagni di vagabondaggio, una diversa umanità cercata per strada o dentro l’inferno degli asili psichiatrici, in un altro momento di doloroso smarrimento. Fino al più recente Urlo che fa i conti con altri familiari fantasmi, immagini pubbliche e private del potere cui già si ribellava il ragazzo di allora. C’è sempre un dolore all’origine del lavoro creativo di Pippo Delbono. C’è la memoria anche fisica di una ferita. Il dolore dell’esodo, il viaggio senza ritorno di tutti quelli che si sono lasciati qualcosa alle spalle. Il dolore dei sopravvissuti. Quelli che si sono salvati per ricordare e raccontare, come voleva Primo Levi. Memoria e racconto si sovrappongono anche qui, su questo palco di nuovo nudo come agli inizi, una sedia un tavolino e una bottiglia di birra è tutto quel che serve all’attore. Che alterna storie di vita alla loro traduzione scenica, in un footing linguistico, uno slittamento del codice espressivo reso immediatamente percepibile dalle luci e dalle musiche manovrate dal fido Robledo.

Le storie dicono soprattutto di incontri capaci di dare un nuovo corso alla vita, da Pina Bausch al fatidico Bobò, il piccolo vecchio uomo dal sorriso infantile, sordomuto e microcefalo secondo l’impietosa visione clinica, per quarant’anni in manicomio prima di essere sottratto dal teatro a una vita vegetativa e ora star indiscussa della compagnia. O ci svelano il mistero di un gesto che poi ritroveremo in un brano di uno spettacolo, aprire e chiudere una mano, sollevarsi senza gambe. Giacché anche a questo serve il teatro, a noi che galleggiamo nell’universo della complessità, ricordare quanto impegno richieda anche il gesto più semplice, quanta bellezza possa contenere. Quanto peso ci sia in una carezza. Non uno spettacolo, e neppure un compendio dei suoi spettacoli. Ma una magistrale lezione su ciò che il teatro può dire.

 

Gianni Manzella, il Manifesto, 3 luglio 2005

A Roma l’emozionante spettacolo-confessione dell’autore-regista.

Fra manicomi e delusioni Delbono si mette in scena.

Più spettacolare e ricco di pathos è risultato il monologo che il regista di Urlo ha svolto a Roma per la rassegna “Garofano verde” col titolo Racconti di giugno, che allude alla nascita di Pippo Delbono, mentre il sottotitolo “Incontro con se stesso” ne giustifica il carattere di meditata improvvisazione. C’è infatti da cercare il senso del fare teatro, attribuito alla vita e alle sue feconde delusioni, oltre che a una serie di incontri, protagonista Pepe Robledo o uno scomparso compagno di gioventù, la Bausch o il “mistero Bobò”, una persona passata di colpo da una vita in manicomio a una padronanza da vero attore. Con qualche lettura di pezzi dei primi spettacoli e del suo remake da Sarah Kane per Gente di plastica, Delbono si guarda dentro senza mai dimenticare quel che lo circonda in una serata-confessione di grande spessore emotivo e intellettivo: qualcosa di più di uno spettacolo e che non deve diventarlo, un libro parlato ricco di provocazioni, di sollecitazioni, anche di mute richieste, che aiuta a capire quanto possano essere profonde le ragioni di un successo.

Franco Quadri, La Repubblica, 27 giugno 2005

Confessioni di un innamorato della vita.

Pippo Delbono il visionario regista star del teatro internazionale si racconto al Belli

Entra come al solito dalla platea. Col suo fare un po’ goffo. Sale sul palcoscenico. Un tavolo. Una sedia. Un microfono. Tutto qui. Le luci in sala restano accese. Perché l’attore stasera non indossa una maschera e il pubblico non deve sparire per lasciare spazio alla fantasia. In scena la verità. Il cui sentiero si deve aver il coraggio di calpestare. Seduto Pippo Delbono, uno degli artisti italiani più acclamati nei teatri di tutto il mondo, comincia a dialogare. Non è una “narrazione”. Ma un incontro. Con se stesso. Con gli individui che gli siedono davanti ognuno col suo fatto di vita e di morte sotto la camicia.

È un Delbono che gioca a non nascondere nulla. I suoi dolori segreti, le sue vie di fuga per non morire. Seguendo un tema che è poi quello che s’evince dalla sua tranche autobiografica. Cercare comunque la libertà nella costrizione. Della morale sessuale, della malattia contro cui ha lottato a lungo. E dice: “Non ho nessun tipo di rabbia verso queste persone”.

La storia comincia presto – “La prima recita che ho fatto è stata a tre anni, facevo l’angioletto” – e non può prescindere del teatro, che si innesta nella vita quasi come una spina dorsale che talvolta regge il peso e talvolta cede. “Tutto è cominciato per una grande passione, una grande amicizia –comincia Delbono -. La storia con questo mio amico è durata dieci anni. Una passione violenta, fatta di pugni, di droga. Di tutto quel che non si doveva fare”. E precisa: “Io non sono mai stato un grande patito della droga. Per me è stato un atto d’amore. Accettare di andare insieme fino in fondo, fino a toccare il fondo. Finché un giorno ho capito che era arrivato il momento di finire. Ho letto il volantino di una scuola di teatro e mi sono iscritto. Ecco, ho tradito il mio amico con il teatro. Una scelta per vivere. Per non morire. Per non morire con lui”.

Ed è partendo da qui che la vita profondamente umana e amata di un uomo si racconta attraverso l’arte. Frammenti autobiografici da Urlo, Il tempo degli assassini, Rabbia e da Enrico V, servono a dire quello che le parole d’un discorso, finanche d’una confessione, non possono esprimere. E così si va avanti per un’ora e mezza, faccia a faccia. In un lavoro che non può essere chiuso nella definizione di “spettacolo”.

Davvero non so cosa sia stato questo Racconti di giugno. Solo posso dire che è qualcosa che emoziona, come la vita, come la verità, che cade in lacrime dagli occhi. In una stagione di forme senza contenuto, di flussi artistici costretti nei vasi sanguigni di un mercato idiota, questo incontro senza pretese e venuto fuori quasi per caso nella cornice della rassegna “Garofano verde” è una delle pochissime cose belle, cose pure, che si siano viste. Una concentrazione di passione, a volte mozzafiato, e di serenità disarmante, cui sinceramente, oggi non siamo più abituati. In un’età senza sogni che non siano preconfezionati. Questo racconto è un vero attentato, un atto terroristico contro l’establishment del silenzio e della solitudine, per dimostrarci che la vita può essere poesia.

Gian Maria Tosatti, Il Tempo, 27 giugno 2005

Racconti di giugno oggi alla Festa nazionale di Liberazione

Intervista al regista: l’intreccio tra arte e storia personale

Delbono: “Ora metto in scena la mia vita”

Solo sul palco. A parlare di sé: del suo teatro, della sua vita. Del suoi amori e delle sue ferite. È un Pippo Delbono straordinario e inedito quello che vedremo oggi alla Festa nazionale di Liberazione a Roma per l’incontro Racconti di giugno. Inedito, ma non diverso da come appare nei suoi spettacoli che in questi anni lo hanno fatto conoscere dal grande pubblico, in Italia e in tutto il mondo. In Francia è una star, proprio lui che con le star della società dello spettacolo non ha niente da spartire. Il suo teatro va in un’altra direzione: tocca il cuore del pubblico. È denuncia. È scandalo, è irrisione della cosiddetta normalità borghese, delle identità sessuali precostituite.

Solo sul palco, parla di sé per sottolineare tutto questo. Per spiegare in maniera ancora più chiara che cosa ci sia nei suoi spettacoli. Barboni, La rabbia, Il silenzio, Guerra, Gente di plastica, Urlo, sono alcuni dei titoli di una biografia artistica e umana di rara intensità. Come nascono? Chi è Delbono? Il regista e autore lo spiega direttamente, senza infingimenti. Si mette a nudo davanti agli spettatori per dire una cosa molto precisa: il teatro non è stato per lui un gioco, un amore qualsiasi. È stata una scelta di vita. Un atto di coraggio che si ripete ogni volta, ogni volta intenso.

Racconti di giugno è stato proposto per la prima volta durante la manifestazione Garofano verde, la rassegna di teatro omosessuale che si svolge a Roma alla fine del la primavera. “Mi è stato chiesto – racconta Delbono – di parlare dell’amore. Più che uno spettacolo è una conferenza, un pretesto per parlare dei tutto ciò che nei miei spettacoli è chiaro ma non è espresso direttamente. In un epoca in cui tutto è reso opaco, in cui vero e falso vengono confusi, è un modo per ritrovare le ragioni del fare teatro. Per me il teatro rappresenta un atto rivoluzionario. Nasce da una ferita rimarginata dal lavoro svolto in questi anni, dagli incontri con le persone in carne e ossa, ma anche con gli autori da me più amati. Sono Pasolini, Rimbaud, Shakespeare. Me li sento dentro”.

Il racconto parte dai primi grandi amori. Dalla scoperta della fragilità del corpo. Dalla musica ribelle e dalla fuga. Due grandi donne come maestre: Pina Bausch e Iben Nagel Rasmussen. Subito dopo i primi spettacoli. Delbono ne ripropone alcuni frammenti, alcune suggestioni. “A un certo punto della mia vita, mi sono trovato davanti a un bivio: lasciarmi andare o trasformare le difficoltà, il dolore in elemento vitale. Nei luoghi di guerra è una scelta obbligata. Di recente sono stato in Birmania, dove c’è una dittatura molto dura. C’è povertà. Sofferenza. Lo vedi negli occhi delle persone. Ti colpisce. Ti ferisce. Ma proprio lì dove il dolore è più intenso nasce una speranza. Per me è stato fondamentale l’incontro con Bobò, un uomo che per cinquant’anni è stato rinchiuso in un manicomio e che oggi fa teatro nella mia compagnia. Bobò è l’esempio di una diversità che in genere viene espulsa, ignorata e che rappresenta invece un ulteriore stimolo per vivere. Per fare teatro”.

In questi giorni Delbono sta finendo il montaggio del suo secondo film. Il primo Guerra ha vinto il David di Donatello e il premio Sulmona. In Francia lo hanno potuto vedere in tanti. In Italia in pochissimi. È il racconto della tournée del suo gruppo in Israele e Palestina con lo spettacolo omonimo, non è fiction. Non è una storiellina. È il diario di viaggio in mezzo alla sofferenza di un popolo. È un film che testimonia la possibilità del dialogo tra palestinesi e israeliani. Con il nuovo film – dal titolo provvisorio Grido – Delbono racconta con altri elementi una parte della sua biografia. “E’ la versione cinematografica di Racconti di giugno. In Grido lascia parlare le immagini, i silenzi. È una scommessa perché non ho accettato le regole classiche di produzione. Niente sceneggiatura prima di girare, massima libertà inventiva durante le riprese. Il rischio à che un film così non trovi spazio. La scusa è che il pubblico non capisce, non vuole queste storie. Ma evidentemente non è così. In Francia Guerra, che ha la stessa struttura, è stato distribuito”.

La Francia, una sorta di eldorado per uno come lui. per uno che non ha mai spesso di amare Pasolini. “Alcuni critici italiani continuano a dire che Salò non sia un film riuscito. I francesi lo considerano un capolavoro. Spesso mi chiedono di andare a presentarlo. Ci vado sempre volentieri. Pasolini, come tutta la sua opera, va ricordato fuori dalla retorica del politicamente corretto. In Italia è stato fatto così. In occasione dei trent’anni della morte, spero che si punti molto sull’intreccio tra vita e arte. Che non si abbia paura di riconoscere questo legame”.

Tra qualche giorno Delbono partirà per Zagabria. Poi, insieme con la sua compagnia, lo aspettano Ecuador, Mosca, Parigi (dal 15 novembre al 24 dicembre), Francia, Belgio, Spagna. A Roma sarà nuovamente a febbraio al teatro Argentina con Il silenzio. Oggi c’è questa occasione unica di vedere Racconti di giugno: un incontro teatrale che Delbono intende far vivere in poche occasioni. Per una di queste, la terza da quando ha debuttato, ha scelto la Festa di Liberazione di cui da diversi anni è ospite molto atteso e molto amato.

Angela Azzaro, Liberazione, 13 settembre 2005