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NOVANTADUE
Falcone e Borsellino, 20 anni dopo

di Claudio Fava

Testo inedito- novità italiana

con (in ordine di apparizione)

Filippo Dini, Giovanni Moschella, Pierluigi Corallo

allestimento e regia

Marcello Cotugno

produzione

BAM teatro

in collaborazione con

XXXVII Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano e Festival L’opera Galleggiante

Nuovo allestimento

Premessa

Il 1992 fu un anno denso di avvenimenti, dalla firma del trattato di Maastricht, alla chiusura del giornale Pravda, l’organo di stampa del Partito Comunista nell’Unione Sovietica, dall’assedio di Sarajevo da parte delle truppe serbo-bosniache all’elezione del democratico Bill Clinton a Presidente degli Stati Uniti di America, fino alla riabilitazione da parte della Chiesa Cattolica della figura di Galileo Galilei.

Eppure fu un anno oscuro e orribile della storia italiana.

Era cominciato proprio con la pronuncia da parte della Cassazione, della sentenza storica e definitiva di condanna che chiuse di fatto il Maxi-processo (del quale quest’anno si celebrano i 30 anni), il più grande processo penale mai celebrato al mondo: quattrocentosettantaquattro imputati, trentacinque giorni di camera di consiglio, la ricostruzione di venti anni di crimini, violenze e corruzioni, un’aula bunker costruita appositamente con quattromila tonnellate di cemento armato accanto al vecchio carcere palermitano dell’Ucciardone: di forma ottogonale e dimensioni adatte ad accogliere centinaia di persone, dotata di sistemi di protezione elevatissimi, tali da poter resistere perfino ad un attacco missilistico e di un sistema computerizzato di archiviazione degli atti, senza il quale un processo di tali proporzioni non sarebbe stato mai neppure lontanamente possibile.

La sentenza finale della Corte di Cassazione, emessa nel gennaio 1992, sembrò quasi” una pietra di tomba” sulla mafia che intanto, invece, si era rimessa in salute.
Nuovi comandamenti, nuovi comandanti- i Corleonesi- a sovvertire con una violenza inaudita i vecchi ideali e codici della “onorata società”. Di loro si diceva che erano abituati alla guerra da quando erano bambini e che “come quelli che nascevano una volta a Sparta, non avevano pace fino a quando i nemici erano diventati tutti concime per la terra”.

Così, mentre si segnava la fine della cosidetta Prima Repubblica con i processi “mediatici”di Tangentopoli che coinvolsero principalmente i tribunali milanesi, i due magistrati simbolo della lotta alla mafia, i cervelli del primo grande processo a Cosa Nostra, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, saltarono in aria con chili e chili di tritolo.
Da allora, si cerca affannosamente una verità.

C’è una curiosa regola di rinnovamento alla ciclicità della storia della Repubblica italiana che il costituzionalista Michele Ainis, chiama la “sindrome del ventennio”. Ne sembriamo come patologicamente affetti.

Non a caso, vent’anni dopo eccoci a raccontare fuori dalla cronaca, lontano dalla commiserazione, la forza di quegli uomini, la loro umanità, il rigore dei pensieri, il loro senso profondo dello Stato e soprattutto, la solitudine a cui furono condannati.
Eccoci a parlare di nuovo di Falcone e Borsellino e quasi senza volerlo, ad allargare la riflessione nel momento in cui, venti anni dopo quelle stragi, si riapre prepotentemente il filone di inchiesta della trattativa tra Stato e Mafia, che non sembra risparmiare neppure le più alte cariche dello Stato.

Sullo sfondo, la nostra Italia che in vent’anni, a ben guardare, considerando proiezioni e strane simmetrie, sembra uguale ad allora…

Il nostro racconto comincia in Sardegna, nell’estate 1985, all’Asinara, nel carcere di massima sicurezza dove Falcone e Borsellino vennero spediti nottetempo per ordine del giudice Caponnetto, dopo l’omicidio del capo della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà, proprio per completare l’istruttoria del Maxi Processo.

Si procede per fatti salienti, noti e meno noti, come per le stazioni di una via crucis.
Il testo punta ad una sensibilizzazione necessaria: troppo spesso, come già ricordava Borsellino, si crede che una mafia che non spara è una mafia che non colpisce più.

Note dell’autore

Una scrivania sulla scena nuda.

Due uomini che lavorano, chini sui loro fogli. Scrivono con la fretta di chi sa che quella è la loro ultima notte prima di lasciare l’isola nella quale si sono ritirati a preparare l’atto d’accusa per il primo grande processo alla mafia. Sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e il carcere dell’Asinara è il loro esilio volontario – lontano da sguardi, domande, minacce – per concludere il lavoro di una vita. Ma è anche una notte di verità necessarie tra due uomini, due amici che condividono lo stesso desiderio di vita e l’identico presagio di morte. Una notte in cui dirsi le cose a lungo taciute, confessarsi rabbie, allegrie, paure. Anche la paura di morire, perché no?, sapendo che fuori da qulla prigione, da quell’isola, li aspetta una guerra che non hanno cercato ma che ormai li reclama.

La scena si dilata, il nostro sguardo precipita verso altri tempi, incontra una ad una le cose che sono poi accadute. Ma stavolta senza più accontentarsi della verità facile che ci hanno servito: da una parte gli eroi, i servitori dello Stato, il bene; dall’altra gli assassini, i macellai della mafia, il male. E in mezzo, niente.
Dopo vent’anni quella terra di mezzo va riempita con il racconto dei peccati innominabili: le omissioni, le complicità, i silenzi, le viltà… Adesso sappiamo che tra quei due giudici ammazzati e la follia omicida di Cosa Nostra si sono mossi pezzi delle istituzioni, uomini dei servizi, ufficiali dei corpi speciali, ministri guardasigilli, funzionari pubblici e depistatori di professione.

Adesso sappiamo che Falcone e Borsellino dovevano morire non solo per volontà dei Corleonesi ma anche per scelta di una parte di quello Stato che i due magistrati credevano di rappresentare e di tutelare.In un tribunale la storia si scrive con i processi.

A teatro, cercando le parole per dire e per immaginare. Partendo proprio da loro, Falcone e Borsellino: non più ingessati nel ricordo ma di nuovo tra noi, in un tempo presente.
Condannati a vivere, i due giudici ripensano alle cose accadute, ascoltano le vite degli altri, osservano questi vent’anni di cose torbide, di frasi lasciate a metà, di trattative e di baratti…

E intanto mettono in scena la loro allegria e la loro agonia, la voglia di vivere e l’attesa della fine. Con loro, sul palcoscenico, non ci sarà un boss di Cosa Nostra ma un mafioso qualsiasi, uno di quelli che erano chiamati a obbedire e a tacere. Al nostro personaggio era toccato in sorte il compito di ammazzare uno dei due giudici: non lo ha fatto e a quella sua vittima risparmiata vuole raccontare che lui non è pentito ma solo deluso. O forse semplicemente annoiato dalle nostre liturgie, dalle messe cantate, dalle mezze verità di un paese che dimentica i vivi per celebrare solo i morti. C’è poi un giudice, il Consigliere Istruttore, un collega di Falcone e Borsellino.
Uno di quelli chiamati a mettersi di traverso in nome di un sentimento opaco e prudente della giustizia.

Quel Consigliere è il segno di uno Stato malato, di una nazione civile che ha perduto se stessa e per la quale Borsellino e Falcone, così singolari nella loro normalità , sono solo un’anomalia, un errore di stampa. Sa di mentire, il Consigliere, ma pensa che sia giusto farlo perché il potere, quello vero, si misura anche con la capacità di simulare, di trovare intese con chiunque, di mettersi al di sopra di ogni morale. Ecco perché il nostro giudice è un personaggio che non si pente, che non nega ma al contrario rivendica, argomenta, spiega, giustifica. E prova a convincere anche loro, Falcone e Borsellino, che sarebbe meglio se mettessero da parte questa pretesa ottusa di sapere come sono andate veramente le cose, chi ha fatto cosa e perché.
Attorno si percepisce un paese pigro e perbene, educato a recitare ave marie in memoria dei propri eroi. E adesso che vengono allo scoperto le storie marce di quell’estate del ‘Novantadue, il Paese non ci sta: siamo cresciuti pensando che tutte le cose accadute fossero dolorose ma limpide, semplici come in un film.
E che a noi toccava solo battere le mani alla fine della proiezione. Così non era.
In fondo non sono più Falcone né Borsellino l’architrave di questo racconto teatrale. Anche loro sono un pretesto per misurarci con il vero oggetto del conflitto: che è la verità.
O meglio, le molte idee di verità. Da una parte la verità nuda, assoluta, senza aggettivi; dall’altra una verità ufficiale, parziale, obbediente … Quale delle due prevarrà alla fine? E chi recita davvero: il morto che fa l’eroe, l’antimafioso che ne piange la memoria o l’uomo di potere che rivendica il diritto a mentire? Chi di loro finge davvero?

Questo, ovviamente, lo deciderà lo spettatore.

Claudio Fava

Note di regia

Novantadue è una moderna tragedia classica. Suo malgrado.

La modernità è nei fatti, nel titolo che scandisce la nostra ridottissima distanza (solo temporale, perché nei fatti c’è già un universo a separarci) dalla storia che mette in scena.
La sua classicità è nella dimensione epica, consapevolmente eroica, dei suoi protagonisti: sarebbero piaciuti a Sofocle, Falcone e Borsellino.

Lo si potrebbe peraltro credere un testo di denuncia: Novantadue – o meglio, il 1992 – è stato un anno orribile della nostra storia, iniziato peraltro con la pronuncia da parte della Cassazione della sentenza storica e definitiva di condanna che chiuse di fatto il Maxi-processo.
Invece, Novantadue è sorprendentemente il racconto di una doppia solitudine.
Che si staglia sullo sfondo di una fase epocale della nostra storia repubblicana, ma sempre solitudine umana resta.

E’ il racconto di due uomini abbandonati da quello Stato che hanno giurato di servire.
Due volti che in Novantadue tornano persone , dopo essere stati trasformati in icone.
Oggi li troviamo fotografati e riprodotti dappertutto, dalle aule di tribunali agli interni delle macellerie.

Fino al paradosso: una loro foto compare perfino in quel circolo Arci di Paderno Duniano dove il 31 ottobre del 2009 i boss delle ‘ndrine si riunirono per eleggere il nuovo capo della ‘ndrangheta lombarda.

Ma erano – e non dobbiamo dimenticarlo – uomini, che lo Stato ha lasciato soli, a consumarsi ed immolarsi in una tragedia assolutamente annunciata.
E fuori dalla retorica celebrativa che si è affannata a piangerne l’eroico sacrificio, di loro non si è forse mai veramente parlato. Della loro umanità, delle loro passioni, delle loro piccole ostinazioni. Delle paure con cui hanno convissuto fino all’ultimo, del rigore dei loro pensieri, di quel senso dello Stato altissimo, non negoziabile, con cui ogni giorno servivano il Paese. Delle loro ore insonni o dei 200 e più caffè consumati (e messi in conto) durante il soggiorno di sicurezza al carcere dell’Asinara, quando erano “reclusamente” intenti a preparare il Maxi-processo.

Una storia del genere non si può raccontare con la retorica.

Per questo il nostro spettacolo trova la sua cifra estetica nell’essenzialità, funzionale a uno scavo profondo nell’intimità di due esseri umani.

In un’epoca in cui anche i teatranti sono asserviti alla confezione di un packaging vendibile e accattivante del loro lavoro, la nostra scelta creativa sta invece nel tentativo di comunicare una verità nuda, lontana dal tempo degli accadimenti e dalla cronaca.
A innescare sulla scena il contradditorio narrativo con Falcone e Borsellino, altri due personaggi: un collega magistrato e un mafioso comune. Il primo è il nemico che si cela dentro casa, è la zona grigia, è il terreno della contraddizione, dove crolla ogni rassicurante steccato tra il bene e il male. Il secondo è un mafioso piccolo piccolo, uno che abbassa la testa e esegue gli ordini, ma che si è rifiutato di eseguirne uno: uccidere Paolo Borsellino.

Tutti i codici che circondano la recitazione degli attori sono dismessi: luci scarne e scenografia minimale ricordano un teatro povero, di ispirazione kantoriana. Ed ecco che bastano pochi elementi (come già nelle intenzioni dell’autore) – un tavolo, delle sedie – per mettere in scena la tragedia di due uomini comuni, chiamati dalla propria indole testarda a una missione straordinaria quanto impossibile: ripulire la Sicilia (e l’Italia) dalla mafia. Pochi altri segni – le papere di legno collezionate da Giovanni Falcone, le sigarette ossessivamente consumate da Paolo Borsellino – ricostruiscono per accenni l’universo e la gestualità dei due personaggi.

Tutto, anche la musica (le note sussurrate di Nils Frahm, gli archi implacabili di Olafur Arnalds, le elaborazioni post neo-melodiche di Hugo Race e del suo The Merola Matrix, le canzonette pop che vengono dalla radio), più che fare che da commento all’azione scenica, servirà da veicolo emozionale per attingere alla solitudine di ciascuno di noi, ai momenti di abbandono che anche noi abbiamo vissuto, al senso di impotenza che anche noi abbiamo patito.

Ai sentimenti di rabbia, paura, sconforto, entusiasmo, che appartengono a tutti.

E che rendono umani anche gli eroi.

Così erano Falcone e Borsellino.

Così siamo tutti noi davanti alla menzogna di Stato che li ha uccisi.

E che continua ogni giorno a contaminare le nostre vite. E ad appannare la nostra vista.

Marcello Cotugno

Biografie:

Claudio Fava (Catania, 1957)

Giornalista, scrittore.

Nel 1984, dopo l’uccisione del padre, il giornalista Giuseppe Fava, ha continuato la sua opera assumendo la direzione de “I Siciliani” e raccogliendo, assieme a tutti gli altri giovani compagni della redazione, il testimone di una battaglia che ha saputo fare di questa rivista un laboratorio di nuova cultura della legalità e dell’impegno antimafioso.
Corrispondente in America Latina alla fine degli anni Ottanta, inviato speciale per molti giornali su numerosi fronti di pace e di guerra, Fava ha sempre incrociato l’attività professionale con l’impegno politico e la lotta alla cultura mafiosa.

Parlamentare nazionale ed europeo, nel 2009 L’Economist attraverso il suo settimanale “European Voice” lo ha eletto eurodeputato dell’anno per il lavoro svolto come relatore nella Commissione di Inchiesta del Parlamento Europeo sull’ “extraordinary renditions” della CIA nella lotta al terrorismo internazionale.
Autore di numerosi libri e romanzi, Fava scrive anche per il teatro, la tv e per il cinema.
Assieme a Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana, é autore della sceneggiatura de “I cento passi” premiata con il Leone d’Oro al Festival di Venezia, con il Davide di Donatello e con il Nastro d’Argento. Tanti i testi messi in scena: ricordiamo “Il mio nome è Caino” e “L’Istruttoria” con la regia di Ninni Bruschetta, “La pazza della porta accanto” per la regia di Alessandro Gassmann, “Mar del Plata” per la regia di Giuseppe Marini.

Marcello Cotugno (Napoli, 1965)

Regista, autore, filmmaker, pedagogo.

Dopo il Diploma in regia all’Accademia d’Arte Drammatica di Napoli, diretta da Guglielmo Guidi, completa la sua formazione teatrale con gli atelier di Eimuntas Nekrosius alla Biennale di Venezia (1999, 2000), Mario Martone al Teatro Argentina (1999) ed arricchisce la passione per la drammaturgia contemporanea -con cui sceglie fin dagli esordi di misurarsi e dedicarsi quasi integralmente- col seminario di drammaturgia Improv for Writers di Neil LaBute alla Biennale di Venezia (2012), autore a cui si è molto dedicato nello studio e nella regia.

Dal debutto nel 1996 con Emilie Muller di Yvon Marciano (che gli vale una segnalazione al Premio UBU), ha diretto oltre cinquanta spettacoli, tra cui Anatomia della morte di…(vincitore del premio di drammaturgia nazionale “7 spettacoli per un Teatro Italliano per il 2000”), Bash e La forma delle cose entrambi di Neil LaBute, Perversioni sessuali a Chicago di David Mamet, Niente e nessuno di Letizia Russo, Closer di Patrick Marber (finalista Premio Ubu 2003 come migliore novità straniera), fino ai più recenti re(L)azioni, Some Girl(s), La Distanza da qui, tutti di Neil LaBute e la piccola rivelazione della scorsa stagione di Patrizio di Gianni Spezzano.

Diplomatosi anche in Filmmaking alla New York Film Academy nel 1999 con il cortometraggio Don’t you need. Somebody to love (menzione speciale al LAIFA 2001), ha diretto i corti Fuori dal giro, con Dario Iacobelli (premio per la miglior regia e premio del pubblico al Festival di Trevignano 2001) e La Tazza (Premio Franco Santaniello al Napoli Film Festival 2006).

Dal 2007 al 2011 è stato tra gli autori della serata David di Donatello per RAI 1.
Docente dal 2009 della Link Academy (recitazione e filmmaking), nel 2014 ha condotto un seminario di recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Tra le sue traduzioni, Eden di Eugene O’Brien (Edizioni Teatro Stabile di Genova) e la prima edizione italiana di testi di Neil LaBute, in uscita a ottobre 2014 per Editoria&Spettacolo in collaborazione con Masolino D’Amico.
Da sempre vicino al mondo della Teatro Terapia, è uno dei curatori del Manuale di Teatro-terapia di prossima uscita per Tullio Pironti Editore.

Filippo Dini (Genova, 1973) interpreta GIOVANNI FALCONE.

Diplomatosi alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova, fonda nel 1998 con i compagni di corso Andrea di Casa, Sergio Grossini, Fausto Paradivino e Giampiero Rappa la compagnia Gloriababbi Teatro. Carriera ricca di incontri la sua: da Cecchi a Binasco, da Barberio Corsetti a Fortunato Cerlino, da Zavatteri a Tonino Conte, da Paravidino a Rappa, fino a Paolo Magelli.

E’ stato indiscusso interprete de “Il discorso del Re” di David Saidler nel ruolo di Giorgio VI di Inghilterra, a fianco di Luca Barbareschi.

Tra i riconoscimenti più importanti, quello come miglior attore non protagonista per “Le maschere del Teatro” per la sua interpretazione di Padre Lorenzo, nel Romeo e Giulietta di Valerio Binasco, il Premio Agis Giuria Giovani per “Il discorso del Re” e nel 2014 il Premio Hystrio ANCT assegnato dalla Associazione Nazionale Critici teatrali, con una bellissima motivazione, che sottolinea una vita di scelte artistiche coraggiose e misurate.

Da anni affianca l’intensa attività di attore con quella di regista.

E’ stato, tra gli altri, regista e protagonista di un applauditissimo Ivanov in questa stagione teatrale.

Giovanni Moschella (Messina,1967) interpreta PAOLO BORSELLINO.

Debutta a teatro nel 1984 con “La corda a tre capi”, testo e regia di Arnoldo Foà. Successivamente lavora con Aldo Reggiani, Giuseppe Pambieri, Lia Tanzi, Annamaria Guarnieri, Pamela Villoresi, Mascia Musy e più recentemente con Enzo Vetrano e Stefano Randisi con cui avvia una duratura collaborazione.

E’ stato il protagonista de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, per la regia di Ninni Bruschetta.
Tantissime le partecipazioni in cinema e televisione.

Pierluigi Corallo (Trani, 1976) interpreta il CONSIGLIERE ISTRUTTORE ed il MAFIOSO (in realtà in una stessa figura si riassumono nell’ordine: un boss di piccolo cabotaggio “l’arrusta e mangia”, Giovanni Brusca ed infine Vincenzo Calcara)
Diplomato nel 1999 alla Scuola del Piccolo di Milano, diretta Giorgio Strehler.
Debutta giovanissimo come protagonista ne “Gli innamorati” di Goldoni, per la regia di Massimo Castri, che lo dirige, tra gli altri spettacoli, in due testi di Ibsen: nel bellissimo “John Gabriel Borkam” dove interpreta Henart, e in “Spettri” nel ruolo di Osvald a fianco di Valeria Moriconi. Lavora con Luca Ronconi, Gigi Proietti, Giorgio Albertazzi, Carmelo Rifici, Pietro Carriglio, Ugo Gregoretti, fino alle più recenti collaborazioni con Ninni Bruschetta, Roberto Cavosi e Serena Sinigaglia che lo sceglie tra i protagonisti di “6 Bianca” , il progetto seriale in sei puntate per il teatro, scritte da Stephen Amidon (l’autore de “Il capitale umano”) e Serena Sinigaglia e prodotto nella scorsa stagione, dallo Stabile di Torino. Premio Wanda Capodaglio nel 1999 come miglior attore diplomando delle Accademie di Arte Drammatica, candidato nella terna dei finalisti per “Giusto la fine del mondo” di Jean Luc Lagarce, regia di Luca Ronconi, nel 2010. Appassionato imitatore, collabora alla trasmissione cult “610” (sei uno zero) dei comici Lillo e Greg su Radio 2.Alterna da anni l’attività a teatro, con l’impegno in cinema e tv. Tante le partecipazioni, tra cui nelle serie di RIS e Squadra Antimafia.

BAM teatro è una produzione indipendente, nata nel 2007.

Produce, co-produce, traduce, mette in scena e distribuisce spettacoli tratti da testi inediti, commissionati o mai rappresentati in Italia, di autori contemporanei, viventi, preferibilmente italiani. Dal 2010 ha sede a Cagliari
(more info) www.bamteatro.com

Info spettacolo:
Piccolo Bellini
Novantadue – Falcone e Borsellino 20 anni dopo
Dal 15 al 20 marzo 2016

Prezzi: intero 15 € – ridotto (under 29, over 65, titolari card Politeatro, titolari di abb.to Teatro Bellini, cral, convenzioni) 10 € – ridotto titolari card Politeatro under 30, 6 €

Orari: martedì, mercoledì, giovedì, venerdì h. 21:15 – Domenica h. 18:30