Di: Alessandra Staiano

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Vi è mai capitato di immaginare dolori incommensurabili, lutti strazianti, catastrofi che sconvolgono la vostra vita o quella dei vostri genitori, fratelli, coniugi, figli? A Shalom Auslander sì. Praticamente sempre. Inseguito dal senso di colpa – tratto caratterizzante, non solo a suo avviso, dell’ebraismo ortodosso – l’autore de “Il lamento del prepuzio” racconta la sua personalissima battaglia con il Dio Onnipotente, imparato a dottrina da una miriade di rabbini, circondati da una platea di genitori, vicini di casa e amici, mentre cresce nella cittadina di Monsey, stato di New York. E lo fa con ironia pungente e sarcasmo irriverente, ridicolizzando ogni aspetto dell’ortodossia ebraica, mentre descrive la sua vita: dall’infanzia all’adolescenza fino al momento in cui, trentacinquenne sposato e creativo in un’agenzia pubblicitaria, attende di diventare padre. Momento in cui quel passato che credeva di essere riuscito in qualche modo a domare riemerge con tutta la sua prepotenza.

Dalle rigidissime regole alimentari al rapporto con l’altro sesso e il sesso in generale, dai rigorosi riti di preparazione allo Shabbat alla sua formazione scolastica: non c’è aspetto per il quale Shalom non ingaggi una negoziazione, una trattativa, una sfida con l’Onnipotente. Divertendo continuamente il lettore mentre alza il dito medio verso il Cielo, salvo poi pentirsi immediatamente e ricominciare la partita con il Signore Unico e Solo.

A reggere il racconto di quest’ossessione, stigmatizzata e ridicolizzata in ogni aspetto, non c’è una vera e propria trama narrativa. Ma Shalom Auslander merita ugualmente gli appellativi incassati dalla critica americana, stampati in prima e quarta di copertina: “nipote arrabbiato di Philip Roth” e iscritto di diritto alla “nobile tradizione che annovera scrittori del calibro di Groucho Marx”.

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