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Rigoletto di Giuseppe Verdi al Politeama

Sul podio Lorenzo Passerini, Ludovic Tézier nel ruolo del titolo

Dal 15 al 24 gennaio, in forma di concerto per la Stagione del Teatro San Carlo

È Rigoletto di Giuseppe Verdi il primo titolo del nuovo anno in cartellone dal 15 al 24 gennaio 2023 al Teatro Politeama per la Stagione 22-23 del Teatro di San Carlo.

Sul podio, a dirigere Orchestra e Coro del Massimo napoletano e un cast di prim’ordine, ci sarà il giovane ma già affermato Lorenzo Passerini, di ritorno a Napoli dopo il successo di Sonnambula

Nel ruolo del titolo sarà impegnato il baritono francese Ludovic Tézier, applauditissimo nel Don Carlo ad inaugurazione di Stagione.

Accanto a lui in palcoscenico Pene Pati (Il Duca di Mantova) Nadine Sierra (Gilda) entrambi di ritorno a Napoli dopo i consensi dello scorso anno in Lucia di Lammermoor. Alessio Cacciamani sarà Sparafucile e Nino Surguladze Maddalena. Completano il cast Cassandre Berthon (Giovanna), Gabriele Sagona (Il Conte di Monterone), Roberto Accurso (Marullo) e ben cinque allievi dell’Accademia del San Carlo: Li Danyang (Matteo Borsa), Ignas Melnikas (Il Conte di Ceprano), Costanza Cutaia (La Contessa di Ceprano), Giovanni Impagliazzo (Usciere di Corte) e Marilena Ruta (Paggio della Duchessa). Il Maestro del Coro è José Luis Basso. L’opera sarà eseguita in forma di concerto.

Prima opera della cosiddetta “trilogia popolare” insieme a La traviata e Il trovatore, Rigoletto debuttò nel 1851 alla Fenice di Venezia. Giuseppe Verdi affidò il libretto a Francesco Maria Piave che lo trasse Le Roi s’amuse di Victor Hugo. La censura però obbligò Verdi a trasformare il protagonista de La maledizione (questo il titolo originario dell’opera) da re di Francia in duca di Mantova, in un quadro storico rinascimentale.

Guida all’ascolto

A cura di Michele Girardi

«Thou wouldst make a good fool – Egli è Delitto, Punizion son io»: due facce di Rigoletto

1. «Tutto il sogetto sta in quella maledizione»

Nel 1850 Verdi ricevette una terza commissione dalla Fenice di Venezia, dopo l’Attila (1846) e quell’Ernani (1844) che insieme con il “Leon di Castiglia” aveva ridestato quello di San Marco, simbolo di una città sottomessa ma non ancora doma. Scelse come soggetto Le roi s’amuse (1832), dramma in versi di Victor Hugo, scrittore decisamente sgradito alle monarchie europee, ma l’intenzione fu prontamente osteggiata dalla Direzione centrale d’ordine pubblico con parole forti, poiché la trama ad essa sottoposta era improntata a una «ributtante immoralità ed oscena trivialità». Subito Verdi esercitò forti pressioni su Piave, poeta incaricato del libretto, affinché riuscisse a conservare il carattere e le «posizioni» di un dramma a cui teneva particolarmente, al punto da rifiutare con fermezza ogni proposta alternativa da parte della direzione del teatro. Il suo atteggiamento fu decisivo perché lo stesso Marzari, presidente degli spettacoli della Fenice, si adoperasse per far approvare il progetto, piuttosto che rescindere il contratto che lo legava al compositore.

Per meglio comprendere la portata degli intenti di Verdi varrà la pena di scorrere sinteticamente le obiezioni dei censori, a cominciare dal divieto di far calcare le scene al re di Francia Francesco I, dipinto da Hugo come un dissoluto libertino del tutto disinteressato alle sorti dei propri sudditi. Si rese dunque necessario straniare la vicenda per evitare che, assistendo alle gesta di un sovrano indegno, crescesse il diffuso rancore verso Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, e si risvegliassero i sentimenti irredentisti dell’inquieta cittadinanza veneziana, dopo l’effimera esperienza repubblicana del 1848. Non servì peraltro mutare l’epoca dell’azione (il secolo XVI) ma solo il luogo (da Parigi a Mantova), oltre al rango del personaggio nobile (da re a duca): superfluo precisarne la casata, altra non potendo essere che quella dei Gonzaga. La Mantova del Rinascimento, in fin dei conti, è ancor più adatta della Francia ad ospitare l’intreccio dell’opera, visto che la storia d’Italia è zeppa di esempi che la rivelano come ambiente estremamente congeniale alla corruzione politico‑morale destinata a rimanere impunita. Piave e Verdi riuscirono invece a mantenere la gobba piazzata da Hugo sulla schiena del buffone Triboulet: la sbilenca immagine scenica del cantante traduceva con muta eloquenza l’uguaglianza metaforica fra la difformità fisica e quella morale, consentendo allo spettatore di comprendere immediatamente uno dei presupposti della trama. Il censore aveva disapprovato anche il finale dell’opera: sotto il pugnale del sicario Sparafucile cadeva la stessa figlia di Rigoletto, Gilda, che si sacrificava al posto del duca. Il suo corpo veniva poi rinchiuso in un sacco e consegnato al mandante dell’omicidio. Nell’opinione di Verdi questa era una “posizione” chiave: in questo modo il buffone non avrebbe ravvisato subito la fisionomia del suo nemico, e la sorpresa nell’aprire il macabro involucro sarebbe stata ancora più atroce. “Ora mi guarda, o mondo!… / Quest’è un buffone, ed un potente è questo!…”: prima che il peso della cruenta beffa ricadesse su di lui, annientandolo, con queste parole, rese possibili dal sacco, Rigoletto aveva creduto di sconfiggere un signore dispotico e arrogante, confessandolo in modo indimenticabile al pubblico.

Il contestato sacco rimase, mentre fu giocoforza cambiare il titolo originariamente prescelto, La maledizione, che metteva in primo piano un concetto bollato come blasfemo. Verdi leggeva in questa chiave Le roi s’amuse, e lo aveva scritto sin dall’inizio a Piave:

Tutto il sogetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l’onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande al sommo grado.

Ma i cattolicissimi censori, uomini di politica e di lettere, non avevano ben calcolato il potere della musica: la parola rimase in alcuni momenti pregnanti del libretto che assunsero un rilievo gigantesco nella partitura, dove Verdi tese un arco semantico a partire dal conciso preludio in do minore. Esso è costruito su un ritmo puntato, scandito da trombe e tromboni sulla fondamentale, cui gli altri ottoni, insieme a legni e timpani, rispondono con una sesta eccedente che risolve sull’accordo di tonica. Indi il declamato si sposta sulla dominante e sfocia in una cadenza, seguita da una progressione cromatica che porta al vibrante lamento dei violini nel registro acuto. Questo brano è un puro gesto sonoro che prepara magistralmente lo sviluppo dell’intero dramma: Monterone romperà l’allegria della festa intonando la stessa nota (do) per scagliare la sua invettiva contro il duca che gli ha sedotto la figlia, e contro il buffone che gli rifà il verso per schernirlo. La sequenza iniziale viene poi connotata nella scena successiva, quando Rigoletto ripensa a quelle parole rientrando a casa, e sosta declamando “Quel vecchio maledivami!…”. L’impianto armonico è pressoché il medesimo, ma da qui in poi la sesta eccedente risolve sull’accordo maggiore e non su quello minore. Il procedimento sembra enfatizzare un moto dell’animo del protagonista, come volesse scacciare dalla mente un terrore privo di fondamento, quando l’implacabile narrazione sonora del preludio non concedeva speranze, quasi che di una tragedia fosse l’esodo, e non il parodo. Il motto è reso più cupo nella ricorrenza perché confinato nel registro grave (B) e meno teso nella scansione metrica rispetto all’inizio dell’opera (A).

Il protagonista viene bruscamente interrotto da Sparafucile, che diverrà strumento della sua vendetta, ma il motto torna in due punti chiave del successivo monologo di Rigoletto (n. 4, Scena e Duetto), introducendo la fremente dichiarazione del suo odio verso l’umanità (“O uomini!… o natura!…”), e prima che egli entri in casa, per trovare nelle braccia della figlia quella pace che il mondo esterno gli nega.

Questi richiami, allusi o precisi che siano, tracciano un arco concettuale che congiunge in modo indissolubile la maledizione di un padre oltraggiato, Monterone, al sicario, all’odio e alla stessa paternità del gobbo. Il preludio è dunque l’argomento di una tragedia incanalata su un percorso obbligato che prosegue nel finale primo, dove il motto s’ode nuovamente quando il buffone torna sui suoi passi mentre i cortigiani stanno per rapire Gilda (“Ah, da quel vecchio fui maledetto!”). Subito dopo il grido straziante di Rigoletto (“la maledizione!”) sigla le ultime battute, in cui il richiamo al motto è affidato a una cellula puntata e la «parola scenica» emerge in tutta la sua pregnanza.

Nell’atto successivo la sequenza dell’inizio viene allusa dal movimento armonico (disteso melodicamente sulle note la♭ e fa♯, che fanno parte della sesta eccedente e risolvono sul sol, che qui funge da perno), e accompagna Monterone che viene condotto al carcere.

Alla comparsa del genitore che di fronte al ritratto del duca si dichiara impotente e desolato, perché a nulla la sua maledizione è servita, il buffone si trova nella stessa situazione dell’uomo che poc’anzi aveva atrocemente deriso: lo schema ritmico passa dal padre condotto alla prigione all’altro che raccoglie la missione di vendetta, creando la prospettiva del finale ultimo. “La maledizione!” è ancora una volta l’urlo di rabbia e dolore che Rigoletto scaglia contro il cielo prima che cali il sipario, e accoglie in sé sia il modello offerto dal finale primo, sia quello ritmico che regge il motto.

2. Dramatis personæ

Grazie al reticolo musicale creato dal motto della maledizione, nelle sue implicazioni metriche e armoniche, Verdi scavalcò di slancio ogni censura enfatizzando il concetto che stava alla base del suo dramma, o fu forse il divieto a stimolarne vieppiù l’estro. Ne scaturì una delle sue tragedie più immani, che corre rapida, coerente ed implacabile verso la catastrofe, pervasa di un disperato rigore morale. Già in Luisa Miller, ma nel romantico contesto dettato dal rapporto fra destino e amore, era emerso il tema del potere (incarnato dall’ambizioso conte di Walter) che opprime le aspirazioni alla felicità dei due amanti. In Rigoletto Verdi si spinse molto più in là, presentandoci una classe dominante di cortigiani amorali, che passano il tempo a spettegolare di amanti e corna, o a tessere trame crudeli.

Fra loro emerge il duca, primo ed unico tenore totalmente negativo del teatro verdiano: frivolo ed egoista, egli è preda di tutte le passioni più effimere che soddisfa con prontezza, abituato all’esercizio dispotico del potere. Peraltro egli canta alcune splendide melodie liriche, ma Verdi gliele affidò soprattutto per connotare la sua fatuità e fargli esprimere a scopi ingannevoli un sentimento che in realtà non prova mai sino in fondo, anche quando sembra andarci vicino, come nella Scena e aria (n. 8, all’inizio dell’atto secondo) dove si strugge per il rapimento di Gilda – “colei sì pura, al cui modesto sguardo / quasi spinto a virtù talor mi credo”, declama con abbandono. “Quasi”: infatti, non appena apprende che la ragazza è stata nascosta dai cortigiani nei suoi appartamenti, si riscuote e intona la cabaletta, inno al più bruciante dei desideri che immediatamente corre a placare. Anche nel duetto con Gilda i versi minano l’immagine del giovane povero e innamorato, in una sorta di esaltazione dell’amore fine a se stessa:

Adunque amiamoci, – donna celeste.

D’invidia agli uomini – sarò per te.

Dal canto suo Rigoletto sin dall’inizio fa il possibile per guadagnarsi l’odio di chi lo circonda in palcoscenico e l’antipatia di chi lo guarda dalla sala ma, a differenza dei suoi superficiali nemici, egli ci spalanca l’abisso della propria anima, e le sue confessioni esprimono un infinito tormento interiore. La paternità, sentimento umano e protettivo, lo riscatta solo parzialmente ai nostri occhi, perché non riesce a farci dimenticare la ferocia con cui ha schernito Ceprano e Monterone. Non è dissimile la sua condizione da quella del sicario Sparafucile, che nell’indimenticabile scena settima dell’atto primo viene a offrirgli i suoi servigi in una buia calle di Mantova, ed egli ne è consapevole quando intona il monologo “Pari siamo!… Io la lingua, egli ha il pugnale”. Perfette parole sceniche, perché scolpiscono la situazione in una fulminea sintesi, che è cifra anche della grande Scena ed aria n. 9 dell’atto secondo. Il buffone passa dal sospetto (la cantilena iniziale, falsamente gaia), all’ira (“Cortigiani, vil razza dannata!”) alla commozione (“Ebben piango”), sino ad umiliarsi di fronte a tutta la corte (“Miei signori, perdono, pietate…”). Ed è proprio questa concentrazione di atteggiamenti, in un arco che ripiega su se stesso (dal più agitato ed imperioso all’implorazione, sino al lirismo, un po’ sentito e un po’ di facciata, comunque musicalmente autentico), ad ingigantire l’empito del personaggio che, nel finale secondo, decide di vendicarsi (“Sì, vendetta, tremenda vendetta”).

Ma il povero protagonista non ha tenuto nel dovuto conto la diversità dell’animo femminile, e l’amore altruistico di cui una donna è capace, anche se indossa i panni coloriti della prostituta Maddalena, e dunque il duca si salverà grazie alla passione che accende nella sorella del sicario, e a quella che ha già infiammato l’innocente cuore di Gilda. Verdi aveva dipinto la figlia di Rigoletto con tratti di enfatica ingenuità nel “Caro nome”, stucchevole aria cesellata come un merletto dalle colorature, ma di assoluta necessità drammatica: quella bimba ingenua sino al limite del credibile, dopo aver conosciuto l’amore in modo diverso da come l’immaginava, diviene traumaticamente, prima nella confessione dell’oltraggio subìto (il rapimento e la rottura dell’illusione nell’incontro col duca a palazzo, e chissà che altro ancora: “Tutte le feste al tempio”), poi nel Quartetto n. 12 e infine nella Scena, terzetto e tempesta n. 13, una donna matura e consapevole, assoluta dominatrice della scena. Quale contrasto con quel duca da lei amato, smanioso pupazzetto sempre uguale a se stesso, capace solo di affermare nella ballata iniziale che “Questa o quella per me pari sono” e ribadire alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza “La donna è mobile”. Verdi ne vietò l’esecuzione al tenore Mirate alle prove, volendo che fosse udita solo alla prima recita, poiché su questa semplice melodia, facilmente memorizzabile, aveva progettato un formidabile coup de théâtre. Nel finale Rigoletto torna alla capanna di Sparafucile per ritirare il cadavere commissionato e si accinge a gettarlo nel fiume, quando dal fondo della scena gli giunge la voce del suo nemico che canticchia proprio quel futile motivo: in quel momento il pubblico assume lo stesso punto di vista del personaggio, e divide la sua atroce sensazione di sorpresa.

“V’ho ingannato… colpevole fui…” è una delle frasi più disperate che mai abbia pronunciato una donna verdiana, e tocca così profondamente il cuore da farci sembrare pieno di verità quello che è forse l’unico omaggio, del resto doveroso, alle convenzioni dei più: il momento in cui, accompagnata dagli arpeggi del flauto, Gilda offre al padre la sola consolazione riservata ai poveri e ai reietti, “Lassù in cielo, vicino alla madre”. Ma quel cielo di delizie incorporee non può esistere per il povero gobbo che, impotente, è messo di fronte al suo totale fallimento.

3. «Una sfilza interminabile di duetti»

Fra tutti i capolavori di Verdi, Rigoletto è quello più sperimentale dal punto di vista della drammaturgia musicale, prima dell’ultima stagione creativa. Se ne scorra l’impianto generale per cogliervi come la tradizionale «solita forma» quadripartita dell’aria (1. Scena, 2. Adagio, 3. Tempo di mezzo, 4. Cabaletta) sia seguita soltanto nella Scena ed aria n. 8 del duca di Mantova (1. «Ella mi fu rapita», 2. «Parmi veder le lagrime», 3. «Duca, duca?», 4. «Possente amor mi chiama»). Non è certo un caso che tale trattamento spetti al personaggio più a senso unico di tutta l’opera, e che un dato formale venga poi ad essere tradotto in puro dramma: nell’unico momento in cui il libertino, che con il suo vorticoso agire è causa principale del meccanismo per cui si giunge alla catastrofe, sosta a riflettere, è capace solo di sentimenti convenzionali, a differenza di tutti gli altri personaggi dell’opera, ivi comprese seconde parti come i fratelli borgognoni, l’uno sicario l’altra prostituta.

Scorrendo l’indice dei numeri, il dato che balza subito agli occhi è la schiacciante prevalenza di forme dialogiche. Ben cinque sono infatti i duetti (nn. 3‑5, 10, 14), di cui tre di fila nell’atto primo: in essi Rigoletto compare quattro volte, e in tre casi insieme alla figlia. Si può ben dire che la sua figura venga definita all’interno di un sistema di relazioni col mondo intimo degli affetti, in aperto contrasto col mondo esterno in cui tuttavia talora si specchia, ed è il caso di Sparafucile in cui vede, con orrore, un suo doppio. “Ma in altr’uomo qui mi cangio” sussurra dolcemente prima di rientrare in casa: tuttavia il mondo familiare disattende le sue aspettative, perché Gilda gli disobbedisce ben due volte, prima palpitando per il giovane che incontra nel recarsi in chiesa, e poi non partendo per Verona, ma immolandosi in luogo dell’amato.

Di queste novità formali Verdi parlò chiaramente a Borsi, motivando il suo rifiuto ad aggiungere nuovi pezzi solistici:

ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una sfilza interminabile di duetti, perché così ero convinto. Se qualcuno soggiunge: «Ma qui si poteva far questo, là quello» ecc. ecc. io rispondo: Sarà benissimo, ma io non ho saputo far meglio.

Bell’esempio di nonchalance, si direbbe quasi che il compositore voglia accreditare il primato di un impulso proveniente dall’inconscio. Ma già obiettando ai primi strali piovutigli addosso dalla censura aveva scritto a Marzari «che le mie note, belle o brutte che siano non le scrivo mai a caso e che procuro sempre di darvi un carattere». E in seguito manifestò in molte circostanze l’opinione che Rigoletto fosse «il miglior sogetto in quanto ad effetto» per le «posizioni potentissime», «più rivoluzionaria, quindi più giovane, e più nuova come forma e come stile» dell’Ernani (l’altro dramma di Hugo ridotto da Piave). Chiunque abbia avuto a che fare con Verdi sa come nulla egli lasciasse al caso, e questo telaio di dialoghi su cui è intessuta l’azione non trova riscontro solo nelle peculiarità del soggetto, ma fa parte di un progetto generale.

4. “Musica in scena”

Rigoletto è opera di conflitti laceranti. Si può compiere una prima verifica sulla funzionalità di un sistema drammatico costruito su cogenti opposizioni prendendo in esame il modo in cui Verdi ha impiegato un ingrediente tipico del teatro d’opera ottocentesco, la “musica in scena”, cioè concretamente prodotta sul palcoscenico da voci insieme a strumenti (come nel caso, piuttosto frequente, delle bande) o dietro le quinte (oppure in altri luoghi) da voci e/o strumenti. Verdi era solito sfruttare la distinzione delle fonti sonore nello spazio per creare diversi piani narrativi, e lo vediamo sin dal quadro iniziale (n. 2, Introduzione) interamente occupato da una festa, dove ha inizio una strategia elaborata per imprimere una connotazione specifica all’impianto generale dell’opera: la vita della corte rinascimentale di Mantova diviene il presupposto dei conflitti drammatici che seguiranno. Realistico l’avvio, affidato alla banda che da sola e dietro le quinte, mentre il palcoscenico è sfarzosamente illuminato e pieno di dame e cavalieri, attacca una musica da ballo in la bemolle maggiore. Il primo contrasto è espresso dai differenti piani di sonorità che incarnano due atteggiamenti: alla forza dirompente del conciso e tragico preludio affidato all’orchestra segue il tenue e frivolo motivetto che viene da fuori. Basta questa contiguità fra una musica di grande concentrazione espressiva, anche se ancor priva di connotazione – solo alla fine della scena verrà, ad inquadrarla, la maledizione di Monterone – e una musica spensierata, volutamente priva di costrutto, a garantire ricchezza di sfumature psicologiche. Sul palco, oltre alla banda collocata dietro il fondale, è disposta in posizione visibile una piccola orchestra d’archi, composta da due violini, una viola e un contrabbasso, che accompagna le danze. Verdi impiega dunque ben tre fonti sonore, a cui affida uno specifico ruolo drammatico: alla banda quello di far indovinare uno spazio esterno dove tutto è lecito, mantenendo con esso un vivo rapporto di sincronia, e al tempo stesso di accompagnare i recitativi da lontano conferendo alla parola un rilievo assoluto; all’orchestrina sulla scena il ruolo ufficiale di eseguire le danze più raffinate che incarnano la galanteria di facciata del cortigiano (minuetto e perigordino, ambedue francesi, quasi un’indicazione nascosta circa la vera identità del soggetto). All’orchestra in sala, infine, è riservato il compito di accrescere il livello emotivo di certi passaggi, accompagnando la ballata del duca e il concertato, e di rafforzare l’impatto del momento in cui farà il suo ingresso Monterone.

Sin troppo evidente il debito con il finale primo del Don Giovanni di Mozart, con le sue tre danze affidate a tre diverse orchestre sul palco, ma tale relazione ha più che altro un sapore di citazione del più celebre luogo del teatro in musica dedicato al mondo in cui opera un libertino – a cui allude anche il “ti vo’ sposar” del tenore rivolto a Maddalena (III.3), che echeggia l’invito al “casinetto” che Don Giovanni indirizza a Zerlina: “e là […] ci sposeremo” (I.9). È altresì importante rilevare che a differenza di Mozart, il quale attua una virtuosistica simultaneità delle danze, sovrapponendo le due ultime al minuetto iniziale, Verdi sviluppa in una successione diacronica gli eventi, e proprio grazie alle possibilità che gli offre la musica in scena nelle sue coordinate spaziali: ognuna delle fonti sonore impiegate svolge un preciso compito narrativo che la distingue dalle altre.

L’altro luogo dell’opera in cui un evento che si svolge all’esterno è posto in relazione col quadro visivo e con il dramma è la tempesta dell’atto terzo, citata anche come tale nell’indice dei pezzi (n. 13, Scena, terzetto e tempesta). E pensiamo anche alla portata metaforica di tale evento, visto che noi partecipiamo dell’azione in modo speciale, poiché vediamo contemporaneamente l’osteria da fuori e da dentro. Qui Verdi impiegò, ed è un unicum nel suo teatro, il coro maschile in funzione connotativa: lo schema della mimesi dell’atmosferico prevede il lampo, seguito dal tuono (cui dà voce il rullo della grancassa interna) e dal coro maschile, che vocalizza a bocca chiusa sopra un movimento cromatico di terze parallele, il cui ambito d’estensione, ampliato da una terza minore a una quinta diminuita, accompagna le varie fasi d’intensità del fenomeno. L’effetto ha mire realistiche, ma viene prodotto con mezzi onomatopeici – in termini riduttivi l’intervento del coro potrebbe essere definito come la mimesi del vento -, rispecchiando fedelmente la celebre massima del maestro per cui era meglio «inventare il vero» piuttosto che imitarlo pedissequamente.

Questo “vero” ricreato è il clima ideale per un omicidio, poiché accresce a dismisura la tensione e interagisce con i personaggi: Sparafucile, da bravo professionista, intravede i vantaggi per il proprio lavoro (“La tempesta è vicina!… / Più scura fia la notte”), mentre Gilda torna sui suoi passi con l’animo scosso da oscuri presagi (“Qual notte d’orror”). Maddalena, che per salvare il giovane di cui s’è invaghita ha convinto il fratello a uccidere il primo viandante che busserà alla porta, viene còlta da una comprensibile ansia (“È buia la notte, il ciel troppo irato, / nessuno a quest’ora da qui passerà”), dal canto suo il duca rimane totalmente indifferente all’osservazione di Sparafucile (“E pioverà tra poco. – Tanto meglio.”). Ma la tempesta ha l’effetto più forte su Rigoletto, al suo rientro in scena per riscuotere il sacco che ha commissionato:

Qual notte di mistero! / Una tempesta in cielo!…/ In terra un omicidio!…/ Oh come invero qui grande mi sento!…

Il fulminante parallellismo fra cielo e terra, fallace presupposto della sua grandezza, gli si rovescerà addosso poco dopo con tutta la forza di un’ironia che più tragica non potrebbe essere.

5. Interno vs esterno?

Verdi ricorse alla musica in scena, peraltro in modo topico, solo nel quadro d’apertura e per gli effetti della tempesta. Tutto il resto del dramma si sviluppa in modo affatto peculiare intorno all’idea di rendere il più manifesto possibile ciò che è o potrebbe restare implicito, cardine di un dramma in cui la stessa visibile difformità fisica serve a porre in enfasi quella morale. Per realizzare questo scopo Verdi sfruttò le peculiarità della musica in scena in relazione alla “musica di scena” – cioè eseguita con carattere di inserto nell’azione da uno o più personaggi, o dal coro, e dall’orchestra in buca (come la canzone “La donna è mobile”) – dove invece la fonte dell’effetto è, per regola, del tutto palese. Si legga in questa chiave il suo rammarico perché la censura gli avrebbe certo vietato di conservare una «posizione» del tutto esplicita e priva di sottintesi del Roi s’amuse: la scena in cui Blanche (Gilda) entra nella camera da letto del re (duca).

Il proposito di far interagire esplicito e implicito portò inoltre il compositore con coerenza anche a realizzare un progetto scenico in cui fossero riuniti anche visivamente interno ed esterno in ben due quadri: la casa di Rigoletto sulla via cieca di Mantova nell’atto primo e l’osteria sul Mincio di Sparafucile nel terzo. Fu ostico, in queste due circostanze, il compito dello scenografo Giuseppe Bertoja, che se la cavò, a quanto risulta dai bozzetti e dalle cronache del tempo, piuttosto brillantemente. Il visto che Verdi appose sui bozzetti è un’ulteriore testimonianza della sua volontà di controllare ogni dettaglio, così come le informazioni che otteneva da Piave su come procedevano i lavori (il 21 gennaio 1851: «il giovinetto Caprara [allora macchinista della Fenice] vuol provarti la sua abilità nei praticabili»). Di particolare importanza è la simmetria con cui in ambo i quadri l’interno fu posto alla sinistra di chi guarda, e l’introduzione del praticabile per rappresentare il terrazzo in cui Gilda canta il “Caro nome”. La scena divisa in due parti rifletteva l’idea drammatica dell’opera in cui le due zone si scambieranno i ruoli, da positivo a negativo, nella prospettiva di Rigoletto: l’interno della casa s’identifica col mondo intimo dell’affetto paterno del protagonista, ma il rapimento dei cortigiani, che lo viola, innesta un processo irreversibile che porta all’interno della taverna, dove si compirà la tragedia.

Se la cura per la verosimiglianza indusse Piave a specificare nel dettaglio particolari della scena dell’osteria (giunse a precisare nel libretto, sull’esempio della didascalia di Hugo, che il muro che divide la scena nel terzo atto “n’è sì pien di fessure che dal di fuori si può facilmente scorgere quanto avviene nell’interno”), non meno grande fu la preoccupazione di Verdi nel rendere più evidente la sua volontà mediante la musica di scena. Perciò anche quando utilizzò “La donna è mobile”, canzone libertina del duca di Mantova, come semplice segnale rivolto a Rigoletto per fargli aprire il sacco che stringe fra le mani, non volle nascondere la fonte dell’effetto, e fece attraversare al duca visibilmente il fondo del palco cantando. L’effetto è micidiale. L’impianto scenico che mette in rapporto interno ed esterno trova piena corrispondenza nel trattamento drammatico‑musicale del soggetto, che Verdi controllò a diversi livelli. Nella sottile interazione fra i due ambienti egli seppe creare le premesse per il compimento della tragedia.

6. Benda e sacco

«Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore», così Verdi, in una bellissima lettera a Marzari del 14 dicembre 1850, ribadì uno dei suoi principali motivi d’interesse per Le roi s’amuse. Ancora un’espressione diretta che fa riferimento a un’opposizione fra interno ed esterno, qui fra aspetto ed animo.

Ma ad esprimere tale contrasto di cui l’opera è permeata sono coinvolti anche due oggetti di scena. Quando Rigoletto torna sui suoi passi, còlto da cattivi presagi, incontra i cortigiani che gli propongono di partecipare al rapimento della contessa di Ceprano. È un inganno atroce ma, come dice a Marullo con cui s’intrattiene brevemente a dialogo, “In tanto buio lo sguardo è nullo”, e una palpata alla chiave portagli con l’intento di convincerlo è sufficiente per indurlo a partecipare a quella che crede l’ennesima beffa ai danni di un cortigiano, raggiro che lui stesso aveva suggerito al duca (“Rapitela […] Stassera”, I.5).

Abbocca perché la scusa è plausibile: durante la festa egli stesso aveva volgarmente deriso Ceprano, mentre il duca corteggiava la sua sposa coram populi (“In testa che avete / signor di Ceprano?”); gli serve però “una larva” onde mascherarsi. In luogo di essa gli viene stretta al capo una benda che “cieco e sordo il fa” – come c’informano i cortigiani stessi. Quella benda interrompe i contatti col mondo e fa sì che il traumatico ritorno alla realtà, dove i cani s’allontanano con la loro preda, sia mille e mille volte più atroce; inoltre la cecità degli occhi rimanda a quella dell’animo (essendo la sordità meno pertinente a una benda, e qui utilizzata al fine pratico di rendere il protagonista insensibile alle invocazioni d’aiuto della figlia).

Più importanti ancora sono le implicazioni del sacco, e non solo per quello che rappresentava per la censura, vale a dire un oggetto in uso a macellai o bottegai, dunque di basso rango, per di più calcato simbolicamente dal piede di un miserabile che schiaccia un nobile. Esso cela per l’ultima volta la realtà alla vista del buffone, e gli consente di vivere per pochi, atroci istanti, una fallace riconciliazione col potere testé umiliato. Dentro al sacco, squarciato con rabbia e ansia indicibile nel riudire il duca, c’è tutto il mondo dei suoi affetti, c’è quella figlia che sino a quel momento aveva salvato l’intimo del suo animo dall’ostilità del mondo esterno. Il gioco interno/esterno è dunque caleidoscopico, poiché mille fili s’intrecciano in un telaio fittissimo: giunge un segnale musicale (la ripresa de “La donna è mobile”) a giustiziare l’illusione di Rigoletto, visivamente rappresentata da una ruvida scorza che ricopre una materia palpitante. È come se un moto dell’animo venisse tradotto in evidenza rappresentativa.

7. “Patria!… parenti!… amici!… Il mio universo è in te”

Si notava come l’ossatura di Rigoletto sia fatta di duetti, forma dialogica per eccellenza, ma li si guardi meglio, e vi si scoprirà che manca proprio quel confronto che essi sollecitano, e che solitamente fa lievitare il dramma. Dialogo non c’è di sicuro tra padre e figlia: nel loro primo incontro egli mostra tutta la sua preoccupazione per la precarietà del loro destino, le riversa addosso tutto l’affetto di cui è capace, e le fornisce, non senza esitazioni, qualche scarna informazione su un passato che par quasi non esistere perché annullato nel presente, l’unico tempo che sembri contare qualcosa per lui. È dato di cui tener conto il fatto che nell’ambito della struttura pentapartita del duetto (0. Scena, 1. Tempo d’attacco, 2. Adagio, 3. Tempo di mezzo, 4. Cabaletta) la Scena, normalmente in stile recitativo con carattere introduttivo all’azione successiva, sia occupata dal grande monologo “Pari siamo”, a sua volta direttamente agganciato all’incontro precedente con Sparafucile, e che il Tempo d’attacco sia segnato dal motivo ottimistico dell’orchestra in do maggiore, che accompagna l’abbraccio fra padre e figlia: tale gesto imprime al brano seguente il sapore di un’illusione di conforto e pace del tutto irreale.

Quando padre e figlia torneranno ad incontrarsi, nell’atto successivo, ben altra è la situazione, e quei fondati timori che agitavano il buffone si sono infallibilmente tradotti in realtà. Qui la struttura è assai complessa, visto che dalla Scena in versi sciolti (con l’eccezione dell’inserto corale dei cortigiani, in ottonari) si passa direttamente a un lungo Adagio che principia con l’appassionata confessione da parte di Gilda (“Tutte le feste al tempio”), una gemma melodica nel genere patetico, tale da commuovere chiunque. Non però il genitore, messo di fronte al fallimento delle sue legittime aspirazioni, che seguita imprecando,

(Solo per me l’infamia / a te chiedeva, o Dio…/ Ch’ella potesse ascendere / quanto caduto er’io…)

ed è rivendicazione solitaria, un a parte di otto versi in partitura dal carattere eroico, che viene così a cozzare contro l’elemento patetico di Gilda. Anche pochi istanti dopo, quando è il momento di consolare la figlia per l’onta appena subita, il padre altro non fa che tradurre il suo impulso in un’esortazione lirica dove, ancora una volta, prende sulle sue spalle ogni responsabilità:

Piangi, fanciulla, e scorrere / fa il pianto sul mio cor.

Ma la piena incomunicabilità tra i due diviene ancor più chiara nella cabaletta di questo secondo duetto, quando Rigoletto rimane sordo alle invocazioni di pietà e perdono della fanciulla, e dal suo angolo della scena si lancia in un solitario, fremente, inno di morte per il suo nemico (“Sì, vendetta, tremenda vendetta”). Gilda si limita a riprendere la melodia del padre, come aveva fatto nella corrispondente sezione del primo duetto (“Veglia, o donna” / “Quanto affetto!…”), quasi che la sua volontà s’annullasse di fronte a lui.

In questo percorso il Quartetto, in cui il buffone cerca di distogliere la figlia dal sentimento d’amore per il duca con l’esempio, è ulteriore conferma che non esistono canali d’intesa: l’articolazione per opposizioni incrociate di registri vocali (soprano e baritono contro mezzosoprano e tenore) e di luoghi scenici (l’interno dell’osteria contro la deserta sponda del Mincio) è l’ideale premessa al terzo e ultimo duetto, quando al padre non resta altro da fare che raccogliere dalla morente l’ultima straziante confessione (“L’amai troppo… ora muoio per lui!…”), e di ricevere una vana consolazione (“Lassù… in cielo… vicina alla madre… / in eterno per voi… pregherò”).

I duetti padre/figlia sono dunque il cardine di una prospettiva drammatica da cui Rigoletto par quasi cercare ad ogni costo conferme della solitudine ch’è marchio del suo stato: “Solo, difforme, povero”. Col duca, poi, non ci sono duetti, né avrebbero senso: l’unico momento in cui signore e buffone sono insieme è la festa, quando dividono la scena con tutti gli altri cortigiani e scambiano poche, feroci battute. A differenza del nobile Monterone, il padre plebeo non va apertamente a reclamare giustizia, a prezzo della propria vita, ma agisce come agirebbe il suo signore, pur coi limiti del suo rango.

Peraltro il buffone può solo beffare, e l’unico modo in cui può realizzare i suoi propositi è quello di servirsi del pugnale di un sicario. Per questo l’unico duetto in cui egli intrattiene un reale rapporto di scambio con un altro personaggio dell’opera è quello con Sparafucile, grande pezzo drammatico in cui ogni convenzione salta per aria, essendo costruito su un lungo dialogo in stile parlante: sopra le voci dei due interlocutori scorre una sinistra melodia in fa maggiore di un violoncello e un contrabbasso. Tutto è scuro, tutto è sinistro: la tessitura degli archi che accompagnano su una figura ostinata, cui si aggiungono nella seconda parte clarinetti e fagotti, non passa mai il Do3 se non nelle ultime battute, dunque le voci insieme ai due archi gravi si fondono in un mare di cupezza.

Questa strategia dei duetti, da cui manca un confronto diretto fra servo e signore, enfatizza dunque la solitudine di Rigoletto: nella mancanza di dialogo col duca è il buffone a farsi carico di una dimensione interiore gigantesca, proprio perché ognuno va per la propria strada a partire dall’inizio. Il signore interferirà sempre con le sorti di Rigoletto, ma come una volontà immanente.

8. «Una maniera del tutto nuova, vasta, senza riguardo a convenienze di sorta»

Parole verdiane che sono tutte un programma, specie «senza riguardo a convenienze di sorta», adattissime dunque al trattamento formale subìto da Le roi s’amuse dal quale sortì Rigoletto. Esse peraltro non sono riferite al dramma di Hugo, ma a un soggetto amatissimo da Verdi, che proprio in quegli anni lo prese più seriamente in considerazione, tanto da incaricare Cammarano di trarne un libretto. Si trattava della History of King Lear, e la prescrizione accompagnava un preciso programma per tale riduzione (una “selva”) di Verdi stesso, che l’inviò allo scrittore napoletano il 28 febbraio del 1850, proprio nel momento in cui stava più intensamente pensando a Hugo. Si rilegga il titolo di questo paragrafo e vi si accosti l’estratto di una lettera rivolta al librettista muranese, l’8 maggio 1850:

Oh Le roi s’amuse è il più grande sogetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!!

La lettera fu scritta due mesi dopo l’altra, ma conosciamo una missiva di Tito Ricordi del 13 aprile 1850 in cui offre a Filippo Danzinger, direttore del teatro di Trieste «una nuova Opera che il sudd.° Maestro [Verdi] sta componendo per me sopra soggetto tratto da una tragedia di Skaspeare [sic]». Da qui in poi si perdono le tracce del Lear sino a che Verdi stesso non informa l’amico Carcano di aver accantonato il progetto, nel giugno dello stesso anno: Le roi s’amuse aveva definitivamente preso il sopravvento.

Ma fu ciò che realmente accadde? Vale la pena di rileggere, in proposito, l’opinione di Julian Budden che, da buon inglese, serba costantemente un’attenzione particolare al lungo e complesso rapporto tra Verdi e Shakespeare:

Le roi s’amuse non costituiva una novità per Verdi, l’aveva più di una volta preso in considerazione ritenendolo adatto per un’opera, ma fu solo quando dovette abbandonare temporaneamente il Re Lear che se ne innamorò. È troppo immaginoso supporre che la nuova vampata d’entusiasmo per il dramma di Victor Hugo abbia avuto origine dallo stesso impulso creativo che aveva spinto Verdi a cimentarsi con Shakespeare? Il raggio di luce che aveva penetrato i meandri nascosti di Re Lear non si è puramente rivolto ad illuminare Le roi s’amuse? Entrambi i drammi vertono sulla paternità. Il buffone di corte è tratto distintivo di entrambi. […] Rigoletto potrebbe anche essere considerato un Re Lear mancato.

Non mi pare affatto un’ipotesi troppo immaginosa, anzi vari indizi la rendono attraente e proverò ad esporli, senza pretendere che le riflessioni seguenti siano altro che suggestioni per ulteriori approfondimenti. È anzitutto notevole che Cammarano, già impegnato col libretto shakespeariano, avesse ricevuto il compito di ridurre anche la pièce di Hugo, non appena la Fenice commissionò una nuova opera a Verdi (fu solo in marzo che il lavoro venne girato a Piave). Mi pare che ciò confermi come il compositore sentisse pienamente l’affinità dei soggetti («Tribolet è creazione degna di Shakespeare!!!», appunto). Aggiungerei poi a quanto nota Budden, che non solo la figura del buffone distingue ambo i drammi, ma lo stesso ambiente di corte, pervaso di cinismo e ambizione, è lo sfondo imprescindibile in cui operano i protagonisti.

Riflettendo sulla tragedia della paternità, mi pare che Gilda abbia per statuto, quale figlia unica, le caratteristiche di Cordelia, terza figlia di Lear, e che per natura non possa sottrarsi alle leggi dell’amore, ma a quelle filiali concepite come assoluto dovere: per questo va contro al padre. Si rileggano le parole con cui Cordelia, nella scena iniziale, rifiuta apertamente di camuffare i propri principi e i propri sentimenti, come Goneril e Regan hanno appena fatto per ottenere il loro terzo d’eredità, e dichiara preventivamente, come legge naturale, la parità di doveri fra l’amore verso il genitore e verso chi la sposerà:

Obey you, love you, and most honour you./ Why have my sisters husbands if they say / they love you all? Haply when I shall wed/

that lord whose hand must take my plight shall carry / half my love with him, half my care and duty./ Sure, I shall never marry like my sisters,

/ to love my father all.

Rigoletto, dal canto suo, ama Gilda di un amore assoluto che non ammette repliche, così come Lear che, nel momento della disillusione, viene còlto dal furore per non essere stato adulato come s’attendeva, e replica a Kent, che osa prendere le parti di Cordelia:

I loved her most, and thought to set my rest /  on her kind nursery.

(To Cordelia) Hence, and avoid my sight!

Quanto peso avranno poi gli organi della vista nel Lear: non vedono gli occhi del re, per sinestesia, quanto le parole delle due figlie maggiori celano (la ribellione), e non sono nemmeno in grado di riconoscere Kent, che riammette al suo servizio dopo averlo discacciato. Ancora occhi nell’azione parallela che riguarda il povero Gloucester, colpevole anch’egli di non aver saputo distinguere l’assoluta lealtà del primogenito Edgar dalla maligna ambizione del bastardo Edmund, ideatore della trama che avrà come conseguenza la scena cruenta dove gli verranno cavati a forza gli occhi dall’orbita. «Out, vile jelly» («Via, vile gelatina») esclama il carnefice Cornwall: l’accecamento è reale ma ha l’evidente portata metaforica che lo lega all’azione principale, dove l’altro padre, accecato moralmente, non ha saputo distinguere la sincerità dall’adulazione.

Come non vedere baluginare il riflesso di questo complesso intreccio nel rifiuto da parte di Rigoletto di accettare la realtà? nel suo essere egli stesso privato della facoltà di vedere da una benda portagli dai cortigiani, che maschera un prevedibile inganno? nel suo non comprendere, o non voler accettare, la realtà affettiva di Gilda, incomprensione che trascinerà ambedue nel baratro?

9. «Se un pazzo è nobile o plebeo? Lear risponde: È un re; è un re!!»

«Pazzo», nell’accezione di Verdi intento a immaginare il proprio Lear, corrisponde al Fool di Shakespeare: trovo suggestivo che il musicista avesse inserito fra le parti principali proprio il Fool che accompagna Lear in tante vicissitudini del play, e che avesse immaginato per Lear, nella riduzione spedita a Cammarano, un duetto conclusivo tra padre e figlia ambientato nella prigione, scena che manca in Shakespeare. Colpisce soprattutto la frase «Lear senza badare a chi arriva solleva il cadavere di Cordelia». Sono segni di come nella sua mente maturasse un posto speciale per due luoghi drammatici per antonomasia del Rigoletto: il padre che perde l’unico bene autentico, e un buffone che viene elevato di rango.

Di fronte a questa costellazione il duca di Mantova rivela un’assoluta inconsistenza. Di più: par quasi una sorta di fantasma che abita la mente di Rigoletto. Rispetto a Shakespeare dove

Lear parla con un affetto curiosamente intimo e senza riguardo per la dignità, quasi che le parole del buffone fossero una sua allucinazione […]; ed è vero che il buffone funge praticamente da seconda personalità esternata dal re,

in Verdi il rapporto fra servitore e padrone viene quasi rovesciato. Rigoletto contiene in sé sia il comico sia il tragico, mentre il suo contraltare rappresenta solo il brillante. La mediazione di Hugo stesso, nella ricezione di Shakespeare, mi sembra decisiva, specie quando afferma che

Shakespeare, c’est le drame; et le drame, qui fond sous un même souffle le grotesque et le sublime, le terrible et le bouffon, la tragédie et la comédie, le drame est le caractère propre de la troisième époque de la poésie, de la littérature actuelle.

Non solo: il potente‑marionetta si muove sempre, musicalmente e drammaticamente, come uno se lo aspetta, intona ballate e fatue canzoni. Ha persino le stesse reazioni del suo buffone, ma le rivela dopo. Rigoletto, nel finale dell’atto primo, torna sui suoi passi e borbotta tra sé e sé: “Riedo!… perché?”, percosso dal motto della maledizione. All’inizio dell’atto successivo il duca dichiara:

Ella mi fu rapita!

E quando, o ciel?… Ne’ brevi istanti, prima che un mio presagio interno

sull’orma corsa ancora mi spingesse!…

Ed è significativo che questa scena, la quale per il prevedibile divieto della censura sostituisce quella del dramma originale in cui Blanche entra nella camera del re, sia assente in Hugo: sono Piave e Verdi, dunque, che lo spingono a tornare verso la casa del buffone. Il duca, peraltro, non deve far fatica per ritrovare la sua “amata”, vista la devozione dei suoi scherani, e avrà ben modo di consolare atrocemente “il pianto della [sua] diletta”.

Rigoletto è dunque più che il rovescio di un Fool, mi pare un matto che «è un re», per mutuare le parole della riduzione verdiana del Lear: concepisce un piano di vendetta contro un signore inconsistente, si conquista un livello di dignità versando lacrime, sudore e sangue, e se la maledizione lo stronca, tuttavia non cancella tutto il travagliato processo che lo porta ad esclamare: “O come invero qui grande mi sento”, immerso nei lacerti di una tempesta che malintende.

Ben altro effetto aveva avuto la tempesta nell’animo di Gilda: il baluginare di quei lampi accompagnava il tumulto del suo animo, vero pedale tragico per un gesto nobile come il sacrificio. Una decisione eroica presa nel contesto di una natura nemica, di fronte a una miserabile stamberga, mentre in orchestra risuonano accordi grevi, con le quinte vuote in guisa di bordone. Un clima musicale di depravazione che Wolfgang Osthoff ha mirabilmente descritto, paragonando quegli accordi che si muovono esitanti, punteggiati dal suono stridulo dell’oboe, all’evocazione di un suono di ghironda.

Ciò che caratterizza l’attacco e il successivo sviluppo di questa “Scena” è il piede dattilico (- ˘ ˘) che imprime un pigro movimento a una catena d’accordi statici su cui si scateneranno gli elementi, e che regge anche le voci del coro che vocalizza a bocca chiusa. Torniamo al primo duetto tra padre e figlia, e precisamente alla cabaletta “Veglia, o donna”, per cogliere un suggestivo arco che attraversa la partitura e, al tempo stesso, l’intera azione drammatica.

Nella cabaletta del duetto la formula d’accompagnamento degli archi al canto di Rigoletto, per piedi dattilici regolarmente alternati a piedi spondaici, segue immediatamente il breve quanto concitato scambio fra il baritono, che avverte un senso di minaccia, e la serva Giovanna. Essa scompare quando Gilda risponde al padre (“Quanto affetto!…”) e riprende per quattro battute, prima che questi s’interrompa nuovamente (ed è il momento in cui il duca, gettando una borsa a Giovanna, sgattaiola all’interno della casa). Non la troviamo in altri punti perché essa traduce in segno drammatico‑musicale un presagio di sventura, che si realizza nella scena dell’osteria: qui della formula ritmica rimane solo un inquietante lacerto ma è quanto basta, perché oramai ogni illusione di serenità non ha più ragion d’essere.

Ma si noti inoltre come la successione di dattili e spondei (- ˘ ˘ – -) abbia un celeberrimo precedente in Beethoven, autore amatissimo da Verdi e a lui consentaneo, per l’espressione assoluta di valori drammatici nella musica.

Quella sezione del duetto è intrisa di una tragica ironia: la raccomandazione alla serva corrotta, intonata con voce soave quale in nessun altro momento dell’opera gli sentiremo, suona come il più cupo presagio del Rigoletto‑padre, che sa già dentro di sé che perderà la figlia. In riva al Mincio, atmosfera a entrambi fatale, c’è un barlume di civile speranza, perché Gilda è indotta al sacrificio nel vedere il pianto rigare le gote di una prostituta come Maddalena (“Che! piange tal donna!… Né a lui darò aita!…”). Ma proprio quel presagio nato all’interno delle pareti domestiche, altrimenti sicure, si sta avverando. Il riferimento a Beethoven è consciamente attuato da Verdi per comunicare il passo implacabile del destino mediante uno schema ritmico ostinato la cieca ostinazione di Rigoletto è tratto distintivo dell’opera ed è ineluttabile come il suo destino, qui tradotto in una penetrante quanto raffinata metafora sonora.

“Ah mio ben solo in terra”: se Lear ha tutto e tutto lascia, Rigoletto ha solo una figlia, ma la sua perdita è più radicale, più romantico il suo agire, più oscura, anche se altrettanto tragica, la conclusione. Forse il nobile Monterone, tonante “convitato di pietra”, uscirà dal carcere, ma l’umile reietto non può evitare il proprio destino – ed è questo il messaggio pessimistico che ci giunge da Rigoletto, il senso ultimo della maledizione. La fiducia in un ideale di riscatto da questo momento lascia Verdi per sempre, segno che il suo laicismo sta per divenire radicale. Quella sorte che sfascia un uomo predestinato prenderà aspetti più concreti, vestendo gli abiti da sera dell’ipocrita società borghese che accelera il disfacimento di Violetta Valéry, o la tonaca del Grande Inquisitore, emblema del cupo potere clericale che annienta Elisabetta e Don Carlo, oppure il costume ieratico di Ramfis, gran sacerdote che condanna Radamès e Aida. Contro di essa, in un utopico tentativo di riconciliazione, il soprano del Requiem invocherà invano “Libera me”.

TEATRO POLITEAMA

Dal 15 al 24 gennaio 2023

Giuseppe Verdi

RIGOLETTO

Melodramma in tre atti

libretto di Francesco Maria Piave dal dramma Le Roi s’amuse di Victor Hugo

Direttore | Lorenzo Passerini

Interpreti

Il Duca di Mantova | Pene Pati

Rigoletto | Ludovic Tézier

Gilda | Nadine Sierra

Sparafucile | Alessio Cacciamani

Maddalena | Nino Surguladze

Giovanna | Cassandre Berthon

Il Conte di Monterone | Gabriele Sagona

Marullo | Roberto Accurso

Matteo Borsa | Li Danyang #

Il Conte di Ceprano | Ignas Melnikas #

La Contessa di Ceprano | Costanza Cutaia #

Usciere di Corte | Giovanni Impagliazzo #

Paggio della Duchessa | Marilena Ruta #


allievo Accademia del Teatro di San Carlo

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Maestro del Coro | José Luis Basso

Esecuzione in forma di concerto


Produzione del Teatro di San Carlo

Teatro Politeama  
domenica 15 gennaio 2023, ore 19:00

mercoledì 18 gennaio 2023, ore 18:00

sabato 21 gennaio 2023, ore 19:00

martedì 24 gennaio 2023, ore 20:00