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TEATRO SAN CARLO

REGIONE LIRICA – II Edizione

Giovedì 15 luglio in Piazza del Plebiscito la prima

de Il Trovatore di Giuseppe Verdi

Con Anna Netrebko, Yusif Eyvazov, Anita Rachvelishvili, Luca Salsi

Dirige Marco Armiliato

In replica sabato 17 luglio

Grande attesa per la prima de Il Trovatore di Giuseppe Verdi in Piazza del Plebiscito giovedì 15 luglio alle 20,15.

Protagonista del capolavoro verdiano un cast internazionale: Anna Netrebko nel ruolo di Leonora, Yusif Eyvazov in quello di Manrico, Anita Rachvelishvili nei panni di Azucena e Luca Salsi nel ruolo del Conte di Luna.

Completano il cast Andrea Mastroni (Ferrando), Vittoriana De Amicis (Ines) eGabriele Mangione (Ruiz).

A dirigere Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo (quest’ultimo preparato dal Maestro Josè Luis Basso) sarà Marco Armiliato.

Sabato 17 luglio la replica, sempre alle 20,15.  Lo spettacolo è in forma di concerto.

Dopo l’anteprima di questa sera martedì 13 luglio, riservata a medici e infermieri, giunge dunque al quarto e ultimo appuntamento Regione Lirica, manifestazione del Teatro di San Carlo in Piazza del Plebiscito sostenuta dalla Regione Campania.

Presenti all’anteprima di questa sera anche i 400 fortunati che si sono aggiudicati i biglietti attraverso il click day organizzato dal Comune di Napoli.

Dal Trovador al Trovatore

(saggio di Juan José Carrerastratto dal programma di sala)

Delle opere che formano la “trilogia popolare” di Verdi, Il trovatore fu certamente quella che ebbe la più ampia diffusione nel corso del secolo XIX. Allo stesso tempo risultò anche la più problematica, non solo agli occhi della critica, ma anche di molti spettatori. Come capita continuamente nel mondo dell’opera, la causa di questi disturbi (che continuano ancora fino ai nostri giorni) risiedeva nella comprensibilità del libretto. Se l’azione, ovvero la storia, raccontata in opere come La traviata o Rigoletto è facilmente comprensibile, quella del Trovatore risulta lunga, complicata e ingarbugliata, anche perché, tra l’altro, non vi si racconta una sola storia, bensì due, che si aggrovigliano una sull’altra. Nel provare a riassumere il contenuto di quest’opera ci ritroviamo nella stessa scomoda situazione di colui che debba provare a riassumere in poche frasi l’intera tetralogia di Wagner, oppure di un ciclo di racconti, o di una serie televisiva estesa in più stagioni: compito difficile, se non impossibile. Ne Il trovatore, la principale dissonanza viene a crearsi tra una partitura d’opera di altissima intensità – composta di azioni fulminanti e contorte emozioni – e una storia letteraria compressa al massimo grado nei quattro atti, che sembra aver poco a che fare con la musica. Già nel 1859 Abramo Basevi, uno dei primi studiosi delle opere verdiane, riassumeva questo problema con una sola frase: «Ognuno vede, che le inverosimiglianze, ed anche le assurdità non mancano in questo argomento; ma per compenso vi è quanto basta a scuotere le fibre dello spettatore».

Com’è ampiamente noto, il libretto de Il trovatore si basa sul dramma omonimo in cinque atti di Antonio García Gutiérrez, che aveva debuttato con enorme successo a Madrid il 1 marzo 1836. Il giovane drammaturgo spagnolo, nato per combinazione lo stesso anno di Verdi, aveva concepito questa sua prima opera in un momento di grande effervescenza politica in Spagna. Morto nel 1833 Ferdinando VII, importante rappresentante dell’assolutismo, si era aperto un periodo di grandi speranze e grandi incertezze. Figlio di un umile artigiano, García Gutiérrez aveva intrapreso gli studi di Medicina a Cadice, ma la sua autentica vocazione era la letteratura. Trasferitosi a Madrid qualche settimana prima della morte del re, imparò sul campo il mestiere del drammaturgo traducendo dal francese numerose opere teatrali di Eugène Scribe o Alexandre Dumas, che ebbero su di lui un’influenza fondamentale, di cui dobbiamo tener conto per comprendere il suo teatro. Il decennio in cui ebbe la sua prima El trovador fu estremamente intenso, animato dall’ambiente rivoluzionario e dal conflitto civile tra i sostenitori della futura regina Isabella II e coloro che invece appoggiavano il fratello del defunto monarca, sponda cui si riferivano tutti coloro che erano contrari a qualunque cambiamento. Il dramma di García Gutiérrez s’inserisce chiaramente in questa particolare congiuntura politica ed emotiva, essendo a sua volta ambientato durante un conflitto dinastico all’interno della Corona di Aragona agli inizi del XV secolo: da una parte i sostenitori del Conde de Urgel, fazione cui appartiene uno dei protagonisti principali, Manrique [manteniamo in questo scritto la denominazione spagnola per i personaggi dell’originale di Gutiérrez] e dall’altra coloro che difendono la posizione che si dimostrerà vincente di Fernando de Antequera, fazione capitanata dal Conde de Luna, don Nuño. Nell’immaginario liberal-progressista spagnolo – per il quale García Gutiérrez divenne un riferimento molto rilevante -, questa evocazione più o meno fantasiosa dei conflitti medievali della Corona di Aragona, si associava inevitabilmente alla difesa delle mitiche libertà civili rispetto all’arbitrario potere del re. Da questo punto di vista, non è un caso che il castello della Aljafería detenga un lugubre ruolo protagonistico nell’opera: basti ricordare che questo luogo (oggi situato in una zona suburbana di Saragozza e dichiarato Patrimonio Unesco dell’Umanità) era stato trasformato alla fine del XV secolo nella sede del Tribunale dell’Inquisizione, vale a dire nell’emblema stesso di una Spagna oscura e tenebrosa, grondante dolore e morte. Sia nel dramma originale che nell’opera verdiana, la violenza estrema e l’orrore sono ben presenti, come un fondale scenico che impone alle effusioni sentimentali dei giovanissimi protagonisti una urgenza ed una disperazione tipica dell’amore nel tempo della guerra. Questo elemento resta, perfino più evidente, anche nel libretto di Cammarano e nella stessa musica di Verdi, che sintetizzano nei quattro atti il rapido susseguirsi della trama originale. Dal triplo raddoppio iniziale di timpani e grancassa, che introduce i segnali militari degli ottoni, ai cori di soldati e ribelli presenti nei tre primi atti, il colore dell’opera è assolutamente oscuro: si passa dalla “tinta” notturna e profumata del secondo quadro nei giardini del palazzo – scena che si erge come un’isola segreta circondata tutt’attorno da violenza – alla terribile “notte oscurissima” presidiata nell’ultimo atto dalla “orrida torre”, ancora una volta l’Aljafería. Un mondo oscuro e maschile, in cui la solarità e l’abbandono delle due voci femminili acquista un rilievo tutto speciale.

Come dicevamo, quella raccontata dal dramma (e dalla partitura operistica) è una storia doppia, ciascuna parte caratterizzata dalla passione amorosa, come aveva ben spiegato Lorenzo Bianconi nel suo saggio fondamentale sull’opera. La prima storia, la più nota, è incentrata sul triangolo formato da Manrique/Manrico il Conte di Luna e Leonora de Sesé, con la disputa tra i due antagonisti per conquistare l’amore della bella dama, appartenente alla corte aragonese. L’altra storia, pone in relazione i due protagonisti maschili già nominati, con la zingara Azucena, donna distrutta dal ricordo della morte atroce di sua madre, bruciata sul rogo, di cui era stato responsabile il padre dell’attuale Conte di Luna. Il ricordo terribile di questa seconda storia – riferita senza evitare alcuna brutalità nell’originalissimo racconto che apre l’opera, in cui peraltro non manca il crudo riferimento alla logica di esclusione sociale e di sterminio delle zingare, marchiate con lo stigma della stregoneria – unisce le tre generazioni implicate (dalla nonna assassinata allo stesso Manrico e a sua madre), culminando nella distruzione e desolazione totale del finale. Il grande scrittore Mariano José de Larra, nella sua recensione alla prima teatrale del dramma a Madrid, aveva lodato la precisa dialettica drammaturgica tra le due azioni principali, entrambe con epilogo tragico: «uno que termina con la muerte de Leonor, la parte en que domina el amor; otro, que da fin, con la muerte de Manrique, a la venganza de la Gitana» («una che termina con la morte di Leonor, parte in cui domina l’amore; l’altra che, attraverso la morte di Manrique, alla fine esaurisce la vendetta della Zingara»).

L’idea di trasformare il dramma di Gutiérrez in libretto d’opera era stata dello stesso Verdi. Nel gennaio 1851, il compositore aveva scritto con entusiasmo a Salvadore Cammarano a Napoli: «A me [El trovador] sembra bellissimo; immaginoso e con situazioni potenti». Alcuni mesi dopo, in una celebre lettera ancora a Cammarano del 4 aprile, Verdi si lamentava della mancanza d’interesse che il destinatario aveva mostrato per questa sua idea: «Voi non mi dite una parola se questo dramma vi piace. Io ve l’ho proposto perché parevami pressentasse bei punti di scena, sopratutto qualche cosa di singolare di originale nell’insieme».

Nella stessa lettera esprime il suo desiderio di trovare nuove soluzioni formali nel musicare il libretto, affermando che «ogni forma, ogni distribuzione è buona, anzi più queste sono nuove e bizzarre io ne sono più contento». Una vera e propria sfida lanciata a Cammarano – una provocazione ben calcolata, indirizzata a un librettista maturato nella drammaturgia operistica tradizionale – per stimolarlo a immaginare un’opera senza numeri musicali chiusi, dove non dovevano esserci «né Cavatine, né Terzetti, né Cori, né Finali etc. etc., e che l’opera intera non fosse (sarei per dire) un solo pezzo».

Osservandola in senso stretto, nulla di tutto questo trovò compimento, visto che la partitura finale si articola comunque tradizionalmente in quattordici numeri (tre per ogni atto, tranne il secondo che ne ha cinque). Eppure il grande paradosso del Trovatore consiste nella sua straordinaria libertà formale, presente all’interno di ciascuno dei pezzi musicali apparentemente presentati in maniera tradizionale: una soluzione originale che pone quei pezzi al riparo dal timore, espresso da Verdi a Cammarano, che «questi pezzi così isolati […] m’hanno piutosto l’aria di pezzi da concerto che d’opera». Non v’è dubbio che questa straordinaria flessibilità musicale fu il risultato del particolare triangolo che si venne a creare tra il compositore, il librettista e il dramma teatrale di partenza.

La «novità e bizarria» del dramma spagnolo (come lo definì lo stesso Verdi in una lettera successiva) senza dubbio erano elementi che attirarono il compositore. Verdi seppe vedere l’originalità di quella proposta non solo nella figura della zingara Azucena – che fu interpretata dal musicista come un personaggio tormentato dalla contraddizione distruttiva tra «le due grandi passioni di questa donna, Amor figliale, e amor materno», ma anche in una abbondante quantità di suggerimenti sonori e spaziali impliciti nel testo di García Gutiérrez (il cui teatro, non dobbiamo dimenticarlo, a sua volta rispondeva ad una drammaturgia profondamente influenzata in quel tempo dall’opera italiana). Un caso esemplare per tutti: la canzone di Azucena “Stride la vampa”, intonata all’inizio del secondo atto dell’opera (dopo il pittoresco coro iniziale degli zingari), corrisponde esattamente alla canzone “Bramando está el pueblo indómito” che il medesimo personaggio canta all’inizio del corrispondente atto in García Gutiérrez. La presentazione del protagonista come un nobile‑trovatore (e dunque non come uno zingaro, con il quale mai un Conde de Luna avrebbe potuto accettare di battersi in duello) implicava peraltro che nel corso del dramma ci fossero canzoni intonate da Manrique. Nell’atto conclusivo di El trovador, per esempio, l’effetto devastante prodotto in Leonor dall’ascolto del canto di Manrique, prigioniero nella torre de la Aljafería, così come di un’altra voce che riconosce essere la declamazione di una preghiera per l’anima di colui che sta per essere giustiziato (entrambe le voci emesse fuori scena), accese l’immaginazione musicale di Verdi. Nonostante Cammarano nel suo primo schema l’avesse ridotta alla sola canzone del trovatore, il compositore chiese espressamente al poeta di recuperare questa scena come “tempo di mezzo” della grande aria di Leonora. Elaborando il suggerimento acustico – ossia sonoro e spaziale – del dramma originale, Verdi trasformò la seconda voce che intonava la preghiera di Gutiérrez in un sorprendente “coro interno” che canta il Miserere, caratterizzato da un’inesorabile “Campana dei Morti”, e lo combinò con le strofe cantate da Manrico sul suo liuto (strumento rappresentato simbolicamente dal suono dell’arpa), con il canto di Leonora e con l’accompagnamento sottovoce di tutta l’orchestra, dando luogo ad uno dei momenti assolutamente sublimi dell’opera.

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Progetto Regione Lirica / 
Regione Campania

Luglio 2021 | Piazza del Plebiscito
Giovedì 15 luglio 2021, ore 20.15 
Sabato 17 luglio 2021, ore 20.15

Giuseppe Verdi /
IL TROVATORE

Dramma lirico in quattro parti
Libretto di Salvadore Cammarano tratto dal dramma El Trovador di Antonio Garcìa Gutiérrez.

Direttore | Marco Armiliato
Maestro del Coro | José Luis Basso

Interpreti
Il Conte di Luna| Luca Salsi
Leonora | Anna Netrebko
Azucena | Anita Rachvelishvili
Manrico | Yusif Eyvazov
Ferrando | Andrea Mastroni
Ines | Vittoriana De Amicis
Ruiz | Gabriele Mangione

Un vecchio zingaro | Giuseppe Scarico

Un messo | Giuseppe Valentino

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo

 Esecuzione in forma di concerto