Di: Sergio Palumbo

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Leggendo “La croce Honninfjord” si ha quasi l’impressione di essere davanti a un Dan Brown esordiente, considerata anche la giovane età dell’autore, al suo esordio. La vasta cultura artistica (qui riferita alla musica), il gusto del mistero che investe il passato e ne fa un suggestivo teatro di avventurose esplorazioni, il fascino di civiltà diverse rivissute nella loro complessa fisionomia di antico e di recente (la vicenda è ambientata in Norvegia), con una conoscenza profonda di luoghi, usi e costumi, richiamano alla memoria i best-sellers di Brown.

Anche qui tutto ruota intorno a un misterioso documento, in questo caso uno spartito musicale, che non solo dovrebbe confermare l’identità di una giovane donna, ma è anche la chiave per chiarire vicende enigmatiche del più lontano passato come della storia più recente, svelando crimini nascosti e ignorati eroismi. Il teatro della ricerca di questo spartito è un luogo favoloso: l’immenso Archivio sotterraneo che contiene tutta la musica del mondo, stipata in un numero infinito di spartiti. E’ un luogo inaccessibile e labirintico, fatto di angusti cunicoli, caverne, laghi e paludi, ignoto quasi a tutti. In questo strano e improbabile mondo nasce l’amore tra il giovane guardiano dell’Archivio e la donna che cerca la propria identità: un amore destinato a intrecciarsi tragicamente con le vicende appena trascorse della resistenza norvegese. L’Archivio è forse un’allegoria della memoria collettiva che in qualche sotterranea maniera interagisce con il nostro presente e lo condiziona e solo esplorandone i meandri è possibile trovare una risposta e un orientamento.

L’intreccio tra i vari filoni narrativi con il loro drammatici colpi di scena, oltre a creare la suspense che tiene incollati al libro, è anche significativo della trama intricata del reale, in cui tutto si risponde e la vita del singolo si collega incessantemente alla vita universale.

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