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Anna Bolena di Donizetti in scena al Teatro di San Carlo

dirige Riccardo Frizza, regia di Jetske Mijnssen

dall’8 al 17 giugno

Anna Bolena, capolavoro di Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani, torna in scena al Teatro di San Carlo, dopo oltre 20 anni di assenza, nella versione firmata da Jetske Mijnssen, regista olandese per la prima volta al Massimo napoletano.  

In programma dall’8 al 17 giugno, lo spettacolo è una coproduzione internazionale tra Teatro di San Carlo, Dutch National Opera e Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia. La prima è fissata per giovedì 8 giugno alle ore 20.

Sul podio Riccardo Frizza, direttore musicale del Donizetti Opera di Bergamo, alla guida di Orchestra e Coro del Lirico di Napoli e nuovamente al San Carlo dopo il successo de Il Barbiere di Siviglia dello scorso anno.

Nel cast Alexander Vinogradov nei panni di Enrico VIII, Maria Agresta è Anna Bolena, Annalisa Stroppa interpreta Giovanna Seymour, Nicolò Donini è Lord Rochefort e René Barbera è Lord Riccardo Percy. Completano il cast Caterina Piva (Smeton) e Giorgi Guliashvili, (Signor Hervey).

La rappresentazione di Anna Bolena è dedicata alle Celebrazioni per il Centenario della nascita di Maria Callas (1923-2023).

Tra le opere più celebrate del repertorio belcantistico, Anna Bolena è una tragica storia di potere ambientata nell’Inghilterra del XVI secolo, composta da Donizetti per il Teatro Carcano di Milano nel 1830, mentre era direttore del Teatro di San Carlo. L’opera è considerata una tappa fondamentale nell’evoluzione dello stile del compositore, in cui l’autore mostra maggiore autonomia rispetto alla tradizione rossiniana e utilizza forme e soluzioni drammaturgiche sempre più personali.

Guida all’ascolto

A cura di Paolo Fabbri

Un guanto di sfida alla Scala.

La prima milanese di Anna Bolena nel 1830

Risale all’estate del 1830 la prima traccia che porta ad Anna Bolena. A un agente teatrale con ufficio a Milano, che l’aveva interpellato per il carnevale 1831 a nome della Fenice di Venezia, Donizetti rispondeva di avere già un impegno col Teatro Carcano: un duplice impegno, a dire il vero, dovendo comporre l’opera inaugurale, e curare la ripresa di un altro suo titolo. Quel teatro milanese, eretto da poco più di un decennio, era allora gestito da una società formata da un aristocratico, il duca Pompeo Litta Visconti Arese, e da Pietro Soresi e Giuseppe Marietti, due «negozianti di seta e banca», cioè commercianti di sete e banchieri (per inciso, erano anche pionieri nel campo assicurativo, fondatori nel 1825 della Milano Assicurazioni che è rimasta attiva fino al 2014). Quel «Triumvirat», come lo chiamava il corrispondente milanese del periodico «Allgemeine Musikalische Zeitung», nell’estate del 1829 aveva portato al Carcano una diva come Giuditta Pasta, costruendo la stagione sui suoi cavalli di battaglia. In seguito aveva provato a dare la scalata all’impresa che gestiva gli Imperial-Regi Teatri di Milano (Scala e Canobbiana). Non ci era riuscita, e aveva dovuto ripiegare sul Carcano, una sala privata più piccola, meno prestigiosa. Non per questo i ‘triumviri’ avevano rinunciato a un programma ambizioso: anzi, allestendo per il 1830-31 la stagione di carnevale ‒ la più importante dell’annata ‒ in concomitanza con quella della Scala, si proponevano evidentemente di farle aperta concorrenza. La sfida era spavalda. Da un lato un teatro «grande e magnifico» (la Scala), dall’altro una sala più piccola. Dal punto di vista economico, poi, era davvero il duello tra Davide e Golia: il Carcano non aveva dote alcuna, mentre la Scala e i suoi impresari potevano contare su di una cospicua sovvenzione governativa. Insomma, da una parte stava un atto di politica culturale ordinaria (la tradizionale stagione scaligera); dall’altra, al Carcano, un gesto straordinario ― e irripetibile ― d’imprenditoria che si confondeva col mecenatismo e l’auto-promozione sociale attraverso il teatro. Già la stessa impostazione della stagione era diversa. Invece di basarsi come di consueto su di una manciata di titoli di cui si auspicava il successo, da distribuire lungo i 2-3 mesi previsti (per carnevale e quaresima), da spremere con una serie immediata di repliche, e da sostituire via via con gli altri annunciati quando il pubblico dava segni di saturazione, quella del Carcano prevedeva 10 titoli diversi (e 76 recite tra il 26 dicembre 1830 e il 20 marzo 1831) e una programmazione cadenzata in anticipo. Più ricca e variata com’era, necessitava anche di mezzi maggiori per consentire produzioni diverse così ravvicinate. Difatti, contro le 4 primedonne, 2 tenori e 5 bassi della Scala, il Carcano sfoggiava 7 primedonne (tra cui Giuditta Pasta) e altrettante seconde, 6 tenori (2 primi, tra cui Giovanni Battista Rubini, e 4 secondi), 7 bassi (5 primi, e perdipiù del calibro di Mariani, Frezzolini, Barroilhet, Filippo Galli, Schoberlechner ― e 2 secondi). Il 17 luglio 1830 la «Gazzetta privilegiata di Milano» ospitava un comunicato-stampa uscito evidentemente dagli uffici dell’impresa del Carcano, che dettagliava ulteriormente il quadro e faceva per la prima volta, ufficialmente, il nome di Donizetti: sua sarebbe stata una delle due novità della stagione (l’altra l’avrebbe fornita Bellini, e sarà La sonnambula). Il compositore partì da Napoli per Milano verso il 20 settembre 1830, facendo una breve sosta a Roma per accompagnare la moglie presso la famiglia d’origine, dove si trattenne fino al ritorno del marito. Sulla scelta del soggetto, che sarebbe stato versificato dal celebre poeta teatrale Felice Romani, sappiamo solo che all’atto della firma del contratto non si era ancora deciso nulla. A un certo punto ci si orientò sulla tragica fine della seconda moglie di Enrico VIII, portata in scena da Marie-Joseph de Chénier nel 1791 in Henri VIII, tragedia in classici versi alessandrini tradotta in non meno aulici endecasillabi sciolti dal marchese Giovanni Pindemonte (Enrico VIII, ossia Anna Bolena: 1816). Ma al di là della storia, questi due lavori nulla di specifico hanno in comune col libretto di Romani. Su di esso, peso maggiore ebbe la tragedia in endecasillabi sciolti Anna Bolena, del conte Alessandro Pepoli (1788). Da qui provengono ad esempio le figure di Percy e di Rochefort (Rocester in Pepoli) che lo accoglie al suo inaspettato ritorno in Inghilterra (II 2 in Pepoli, I 6 in Romani). Tornarono utili a Romani anche il primo incontro di Anna con Percy (I 8: II 5 in Pepoli) e soprattutto il loro secondo colloquio (I 12: III 8 in Pepoli), senza dimenticare il tête-à-tête fra Enrico e Seymour (I 5: IV 8 in Pepoli). Un ruolo potrebbe averlo giocato anche il dramma Anne de Boulen di Frédéric, mélodrame in prosa — in 3 atti — tenuto a battesimo all’Ambigu-Comique di Parigi nel 1821. Assai libero rimaneggiamento della tragedia di Chénier, era noto in Italia anche attraverso la traduzione fattane dall’attore Luigi Marchionni (Anna Bolena, dramma in prosa in 3 atti). Sappiamo che dal 1825 Marchionni ebbe il suo stabile campo d’azione al Teatro dei Fiorentini, a Napoli: non si può escludere che Donizetti avesse assistito proprio a recite di questa traduzione, e segnalato soggetto ed alcune situazioni a Romani (il sommesso dialogo tra due servi sui rapporti tra re e regina [I 1], nel libretto affidato invece ai cori d’inizio; l’incontro tra Anna ed Enrico in partenza per la caccia [I 8]), che poi Romani lavorò tenendo a portata di mano la più regolare e a lui più consona tragedia di Pepoli. Di formazione e d’indole letterarie classiche, Romani in quegli anni coltivò di frequente nei suoi libretti l’ideale tragico: nella «tragedia per musica» Giulietta e Romeo (Vaccai, Milano 1825) e nelle «tragedie liriche» Saul (Vaccai, Napoli 1829), Zaira (Bellini, Parma 1829), appunto Anna Bolena, Norma (Bellini, Milano 1831), I Normanni a Parigi (Mercadante, Torino 1832), Ugo conte di Parigi (Donizetti, Milano 1832), Beatrice di Tenda (Bellini, Venezia 1833). Indipendentemente da soggetto ed epoca di quei libretti (e dunque dal genere di scene e costumi), trattamento e tono tendevano a livelli di stile elevato, e a ritmi drammatici ampî, cadenzati largamente. Quello di Anna Bolena, ad esempio, bilancia le zone in versi sciolti (per il recitativo) e quelle in versi lirici (per i ‘numeri’) senza troppo sacrificare le prime. Così facendo, non assecondava certo le tendenze contemporanee che volevano il recitativo ridotto all’essenziale per lasciar spazio a pagine musicalmente più elaborate, e però in tal modo motivandole debolmente (riducendole ad effetti senza cause, aveva giustamente commentato Giuseppe Carpani) e privando la scrittura drammatica di quegli squarci di alta declamazione che avvicinavano per quanto possibile il teatro musicale a quello tragico. Oltre ad equilibrare il rapporto tra recitativi e ‘numeri’, Romani puntò anche ad armonizzare tensioni e distensioni drammatiche, per imprimere un ritmo largo e bilanciato alla condotta drammatica. Dopo il nodo del Quintetto con Coro, nell’Atto I, il filo della vicenda riparte da un altro personaggio (Smeton) e da una sua scena a solo, per poi aggregarne via via altri fino al più intricato e drammatico viluppo del Finale I. L’Atto II alterna le rivelazioni di Giovanna (II, 3) e Percy (II, 6) con Cori e assoli che non soltanto adempiono agli obblighi delle ‘convenienze’, ma servono a differire il Finale rallentando il precipitare dell’azione verso la mortale catastrofe. Nell’Atto II è il Coro che cadenza le stazioni della vicenda: commenta (1: «Oh dove mai ne andarono | le turbe adulatrici»), narra (4: «Ebben? dinanzi ai giudici | quale dei rei fu tratto?»; 11: «Chi può vederla a ciglio asciutto»), interviene (8: «A voi, supremo giudice, | sommessa è la sentenza»). L’Atto I aveva concatenato situazioni varie sotto gli occhi dello spettatore, via via svelando con grande sapienza e sottigliezza drammatica la subdola macchinazione di Enrico inopinatamente agevolata dai gesti tanto generosi quanto maldestri di Rochefort, Percy e Smeton: segni di un Fato avverso, che faceva muovere la Tragedia in rovinoso soccorso al Dramma. Rispetto a tutto ciò, l’Atto II è invece essenzialmente teatro di parola cantata e di reazione psicologica ad azioni che si consumano altrove. E, difatti, scenograficamente è tutto ambientato nei locali di accesso ad altri ben più significativi, dove accadono i fatti esteriori e dove la vicenda si compie: «Gabinetto che mette alle stanze ov’è custodita Anna» (1-3), «Vestibolo che mette alla sala ov’è adunato il Consiglio» (4-8), «Atrio nelle prigioni della Torre di Londra» (9-Ultima). Quei veri e proprî stasimi corali dell’Atto II finiscono per illuminare tragicamente a ritroso anche l’Introduzione dell’Atto I, col coro iniziale che funziona da parodo dialogata alla maniera di quelle delle Coefore o delle Eumenidi di Eschilo. La ‘prima’ di Anna Bolena si tenne la sera di domenica 26 dicembre 1830. Per ovviare alla scomodità della dislocazione decentrata del Carcano era stato predisposto addirittura un servizio di trasporto pubblico per coloro che non avevano carrozza privata. Anna Bolena fu presentata insieme con La vedova nel giorno delle sue nozze di Luigi Henry, «ballo grande, serio, appositamente composto». Interpreti dell’opera: Giuditta Pasta «prima cantatrice di camera» dell’imperatore d’Austria (Anna), Filippo Galli (Enrico VIII), Giovanni Battista Rubini lui pure «cantante di camera» dell’imperatore (Percy), Elisa Orlandi (Giovanna Seymour), Enrichetta Laroche (Smeton), Lorenzo Biondi (Lord Rochefort), Antonio Crippa (Sir Hervey), Cori e Comparse. «Le scene sono nuove, d’invenzione e d’esecuzione del sig. Alessandro Sanquirico», scenografo illustre, temporaneamente giubilato dalla Scala. L’esito della serata fu tutto sommato positivo: Rubini accese l’entusiasmo generale, la Pasta confermò le sue doti, e Galli ebbe applausi più che altro di stima, in omaggio al ricordo di ciò che era stato ai tempi di Rossini. La partitura di Donizetti fu ben accolta ma venne giudicata lavoro elaborato, bisognoso di riascolto per essere apprezzato davvero. Il pubblico fu più caloroso alla seconda rappresentazione, il 27 dicembre, e poi alla terza (3 gennaio). Come si è detto, l’organizzazione di quella stagione prevedeva un avvicendamento di più titoli, per cui a quel punto Anna Bolena fu accantonata per un po’: replicata una quarta volta il 7 gennaio, venne ripresa prima del 21 e poi agli inizî di febbraio, e un’ultima volta il 25 marzo (il 15 era andato in scena per una sola sera Olivo e Pasquale, l’opera non nuova che per contratto Donizetti doveva curare). Nell’intonare Anna Bolena, Donizetti non aveva mandato certo dispersa quell’aura tragica che era stata nelle intenzioni di Romani. Scrivendo a quest’ultimo nella primavera 1834, il soprano Virginia Blasis l’aveva pregato di farle «una parte nel genere della Norma, o dell’Anna Bolena, o del Pirata, non voglio una parte di ingenuità, perché il mio genere è per il tragico». E commentando le doti interpretative di Giulia Grisi, nel luglio 1835 il malevolo Bellini scriveva a Florimo: «l’ho vista nell’Anna Bolena, che toltone il tenero, è insopportabile nel resto, e specialmente nel tragico». Giuseppe Mazzini, poi, nel suo saggio Filosofia della musica (1836) riconosceva a Donizetti il merito di «aver toccato il sublime tragico nell’Anna Bolena». Capacità di restituire «l’individualità de’ caratteri» (specie nell’aggiramento dei parallelismi in duetti e concertati), un’orchestrazione «piena, continua, maestosamente solenne», e infine il Coro, presente e centrale come non mai nello snodo della vicenda, non più semplice cornice ai protagonisti ma personaggio collettivo e d’ambiente: ecco le ragioni che spingevano Mazzini a definire Anna Bolena «tal cosa che s’accosta all’epopea musicale», una tragedia a base storica che a suo avviso rappresentava un punto fermo sulla via di quella riforma da lui auspicata, che avrebbe dovuto fondarsi sullo «studio de’ canti nazionali, delle storie patrie». Dell’epopea, la partitura di Donizetti ha anche il respiro: ritmo drammatico ampio, e un ‘far grande’ che nell’opera italiana degli anni ’20 era incarnato da Semiramide di Rossini (1823), dal Crociato in Egitto di Meyerbeer (1824), dall’Ultimo giorno di Pompei di Pacini (1825). Entro questo quadro, però, Donizetti fa spesso precipitare determinati momenti dell’azione in modo ben più serrato rispetto a quanto preparatogli da Romani. Lo tradiscono certe giunture — piccole e grandi — più strettamente interconnesse, gli sveltimenti, le ricalibrature degli equilibri architettonici tradizionali (cioè rossiniani). Un esempio significativo l’offre proprio il primo ‘numero’ dell’opera. Dopo una sinfonia neppure lei poi così rossiniana, per scelte strutturali e melodiche, come potrebbe suonare a un primo ascolto, il sipario si alza su di un interno del castello reale di Windsor. A dispetto dell’andirivieni di cortigiani per la sala illuminata, l’atmosfera non è né brillante né festiva: «Sì taciturna e mesta | mai non vidi assemblea», commenterà Anna, ma già ce lo avevano detto l’attacco sommesso, i tremoli e il serpeggiare orchestrale che presto fa virare la tonalità d’esordio da maggiore a minore. Quasi metà dei versi di Romani per il coro introduttivo caddero però sotto la mannaia di Donizetti che, dopo averli intonati compiutamente, vi rinunziò per brevità, e fors’anche per poter inserire l’irruzione della Seymour, non prevista da Romani in un primo momento. Questi la strutturò come una strofetta di cantabile, anche se la materia poetica non era di quelle consuete per tali nicchie liriche: Donizetti ne accentuò invece il carattere instabile, conferendole andamenti poco più che recitativi e perdipiù in evoluzione, dato che sfociano in una frase larga e distesa, che non si può dispiegare arginata com’è dalla muraglia di accordi a piena orchestra per l’ingresso di Anna. Nell’allusiva «romanza» di Smeton, poco dopo, Romani aveva sperimentato una disposizione che poi replicherà in Norma (duetto Norma-Adalgisa, nell’Atto I): sull’ultimo verso lirico del personaggio («esser quel primo amor») s’innesta una prosecuzione altrui («Cessa… deh cessa…») che doveva favorire la continuità, ma allo stesso tempo segnare la frattura emozionale, scompaginando i moduli metrici. Donizetti preferì una soluzione ben più incandescente: riprendendo il suo ultimo verso («Quel primo amor che…»), fece ripartire Smeton con una terza strofe che Anna, in un accesso irrefrenabile di commozione, soffoca sul nascere. Si riascolta — enarmonicamente — la medesima ombreggiatura in minore già sentita nel Coro: è l’avvio di uno slittamento verso un piano tonale parallelo (sol magg., mentre fin lì tutto si era svolto in mi bem. magg./min. e la bem. magg., ed Anna stessa tornerà al mi bem. magg. per la sua cabaletta) su cui si colloca un cantabile perdipiù anomalo, senza riprese interne. Eccezionale per dimensioni e articolazioni interne, oltre che per intensità ed escursioni emotive, è la Gran Scena finale di delirio, che espande ed estremizza i recenti modelli belliniani di Imogene (Il pirata, 1827: ma si trattava di un quasi-Finale) e di Alaide (La straniera, 1829). Coro introduttivo, scena di allucinazioni, cantabile, tempo di mezzo arricchito dalla preghiera, cabaletta di furore: una vera scena-madre per la protagonista, e una prova di forza compositiva per il Donizetti uomo di teatro, senza cali di tensione fosse pure per una singola battuta. Incastonata al suo interno, la celeberrima rimembranza di «Al dolce guidami | castel natio, | ai verdi platani, | al queto rio…». Le fioriture della melodia danno sinuosità e grazia a un’ossatura musicale altrimenti essenziale fino alla schematicità. Dilatando le sillabe, quei melismi diluiscono la sostanza semantica del verso, snervandolo e sublimandolo in fonemi quasi astratti, finendo così col creare proprio in articulo mortis una parentesi incantata e sospesa nel flusso di una vicenda cupamente e implacabilmente in marcia verso la catastrofe. Pur con tutte le tragiche intenzioni di Romani, memorabili risultano alla fine proprio quei versi così brevi e semplici, in cui la protagonista riesce per un momento a sottrarsi al suo destino di sofferenza. Come Semiramide per Rossini, Anna Bolena è il culmine di una fase della carriera di Donizetti: gli anni ’30 lo vedranno infatti perseguire ideali drammatici che in quella partitura erano momentanei, e che invece diverranno strutturali. Un canto del cigno intermedio, dunque, prima di volare altrove.

Teatro di San Carlo
giovedì 8 giugno 2023, ore 20:00

domenica 11 giugno 2023, ore 17:00

mercoledì 14 giugno 2023, ore 18:00

sabato 17 giugno 2023, ore 19:00

Gaetano Donizetti

ANNA BOLENA

Tragedia lirica in due atti

 Libretto di Felice Romani

Direttore | Riccardo Frizza

Regia | Jetske Mijnssen

Scene | Ben Baur

Costumi | Klaus Bruns

Luci | Cor van den Brink

Coreografia | Lillian Stillwell

Drammaturgia | Luc Joosten

 Interpreti

Enrico VIII | Alexander Vinogradov

Anna Bolena | Maria Agresta

Giovanna Seymour | Annalisa Stroppa

Lord Rochefort | Nicolò Donini

Lord Riccardo Percy | René Barbera

Smeton | Caterina Piva

Signor Hervey | Giorgi Guliashvili #

 debutto al Teatro di San Carlo

# allievo Accademia Teatro di San Carlo

 Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Maestro del Coro | José Luis Basso

Una coproduzione Teatro di San Carlo, Dutch National Opera, Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia

Celebrazioni del Centenario di Maria Callas (1923-2023)