Di: Sergio Palumbo

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“Poesia” è l’ultima parola musicata da Giacomo Puccini, prima di morire lasciando incompiuta Turandot, poi completata da Franco Alfano. Proprio la poesia è l’aspetto che più manca all’allestimento firmato da Vasily Barkhatov e forse questo è il motivo per cui è stata ferocemente criticata. Peccato, perché ci sono molti aspetti interessanti nella regia di Barkhatov, che sconta principalmente una realizzazione non sempre felice, oltre ad alcune scelte registiche ingombranti o talvolta fuori luogo.

Barkhatov immagina la vicenda musicata da Puccini come un’allucinazione in uno stato sospeso tra la vita e la morte dopo un incidente stradale. Nel primo atto è Calaf ad aver avuto la peggio e vede sé stesso portato via in barella, un paramedico gli sbarra la strada e si toglie la tuta diventando il Mandarino che illustra la legge dei tre enigmi. Incombe in scena una sala operatoria dove i medici stanno operando Calaf e Turandot li pressa per salvargli la vita. Poco prima, come si vede in un video che precede l’opera, in auto, i due, di ritorno dal funerale di Timur, stavano litigando. Nel secondo atto, come in uno sliding doors, è Turandot ad aver avuto la peggio e la vediamo operata dai chirurghi che cercano di salvarle la vita. L’opera in scena è quindi un incubo, un’allucinazione che i due protagonisti in coma hanno dopo l’incidente. Un’idea interessante e anche con una sua fondamentale coerenza, ma con diverse pecche nella sua realizzazione. I video, prima di tutto. Il livello è quello di una telenovela mal riuscita, un po’ troppo in stile Gomorra, con un doppiaggio infelice e dialoghi non convincenti. I costumi, curati da Galya Solodovnikova, pur coerenti con la dimensione onirico-allucinatoria, sono in taluni casi francamente brutti, come quelli di Ping, Pang e Pong o, peggio, delle guardie imperiali. Alcune scelte registiche sono scarsamente comprensibili senza aver letto le dichiarazioni del regista, spesso con derive ultrasimboliste o ultradidascaliche e talvolta poco condivisibili. Non si comprende, ad esempio, perché Turandot debba suggerire la soluzione del terzo enigma per poi, pochi istanti dopo, implorare il padre di non gettarla “fra le braccia dello straniero”. La scena della morte di Liù, poi, è completamente sconnessa dal libretto e dal cantato ed è l’emblema di come il lirismo dell’opera pucciniana in questo allestimento risulti decisamente penalizzato. Infelice la trovata di infilare l’imperatore in una teca in cui dormicchia per essere tirato fuori all’ occorrenza. Tanto più se in quella teca c’è il grande Martinucci, oggi ottantaduenne, che meriterebbe ben altro rispetto. Più convincenti le scene di Zinovy Margolin, che ben riproducono la Chiesa di San Lorenzo Maggiore, dove si era tenuto il funerale di Timur nel video introduttivo, ultimo luogo dove erano stati i protagonisti prima dell’incidente.

In quanto a poesia, il fronte musicale e quello vocale compensano decisamente le défaillance registiche. La direzione di Dan Ettinger è imponente per volumi, ben sottolineando i momenti solenni dell’opera, ma penalizzando in certi casi l’equilibrio palco-buca. Ottimo il lavoro dell’orchestra, del Coro delle Voci Bianche (diretto da Stefania Rinaldi) e del Coro del San Carlo (preparato dal Piero Monti), nonostante le difficoltà causate dai costumi piuttosto pesanti.

Sondra Radvanovsky, nel ruolo del titolo, ha catturato l’attenzione del pubblico fin dal primo momento, grazie alla voce potente e ad alla presenza scenica regale. Uno degli aspetti più straordinari della prova di Radvanovsky è stato il modo in cui ha padroneggiato gli acuti. Nei momenti di climax, come nell’aria “In questa reggia”, Radvanovsky ha sfoggiato acuti taglienti e potenti, sostenendo le note con una sicurezza e un controllo impressionanti, andando a compensare una dizione non sempre perfetta.

Yusif Eyvazov è un Calaf dallo squillo potente e dalla tecnica impeccabile, che rendono secondaria l’asprezza del timbro. La sua abilità di sostenere e modulare gli acuti con uno squillo penetrante ha aggiunto un elemento di trionfo e audacia al personaggio di Calaf, incarnando perfettamente la sua sfida alla Principessa Turandot.

Rosa Feola, nel ruolo di Liù ha offerto un’interpretazione eccezionale, caratterizzata dalla sua voce cristallina e dal bel colore, creando un contrasto emozionante con le voci più potenti presenti nell’opera. Nei momenti più delicati, come nella romanza “Signore, ascolta”, Feola ha modulato la sua voce con una grazia e una sensibilità straordinarie navigando con agilità tra le diverse sfumature richieste dal ruolo di Liù, trasmettendone la sofferenza e l’amore, ma anche la determinazione del personaggio, che il regista ha scelto di accentuare.

Ben affiatato il trio composto da Roberto de Candia, Gregory Bonfatti e Francesco Pittari, che, nonostante i costumi, hanno reso egregiamente i personaggi di Ping, Pong e Pang, che nella rappresentazione erano le proiezioni, nell’incubo dei protagonisti, dei tre chirurghi presenti in sala operatoria.

Alexander Tsymbalyuk ha apportato al personaggio di Timur una presenza scenica maestosa e una voce profonda che ha ben enfatizzato il dolore e la devozione del personaggio.

Bene anche Sergio Vitale, nel ruolo del Mandarino-paramedico.

Link: il sito del Teatro San Carlo di Napoli – www.teatrosancarlo.it