Di: Sergio Palumbo

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Nel panorama teatrale italiano, pochi nomi brillano con l’intensità e la profondità di Annibale Ruccello. La sua opera, spesso audace e commovente, esplora le profondità dell’animo umano, portando in scena personaggi vibranti e storie coinvolgenti. Tra le sue opere più celebri, “Le cinque rose di Jennifer” spicca come un’opera toccante e profonda, capace di trasmettere emozioni e riflessioni che restano impresse nello spettatore.

Il testo di Ruccello presenta al pubblico Jennifer, un femminiello che vive in un fantomatico “quartiere dei travestiti” di Napoli. Jennifer, nell’attesa di una telefonata da Franco, un ingegnere genovese, trascorre le sue giornate al telefono rispondendo alle chiamate più disparate, che arrivano per errore a causa di un guasto alle linee del quartiere, e ascoltando Radio Cuore Libero, tra dediche e notiziari che diffondono inquietanti notizie su un serial killer che uccide i travestiti. Tra una telefonata e l’altra, Jennifer riceve la visita di Anna, un altro travestito che abita nel quartiere, la cui unica compagnia è la gatta Rosinella, che chiede di poter aspettare una telefonata a lei diretta che crede possa arrivare, per il disservizio, a casa di Jennifer.

Tra le opere più famose del mai abbastanza compianto autore stabiese, “Le cinque rose di Jennifer” contiene molti temi ricorrenti della drammaturgia ruccelliana: la diversità, la disperazione dell’attesa, l’impossibilità di un riscatto tanto invano desiderato e l’atroce solitudine che portano alla follia, l’effimera compagnia del telefono o della radio, l’ingenua illusione di una speranza a cui aggrapparsi, il racconto crudo e disincantato delle vite ai margini della periferia napoletana degli anni Ottanta. Vite deportate, condannate all’infinita solitudine dell’emarginazione, che pur se si incontrano restano distanti anni luce, arcipelaghi di isole vicine ma lontanissime, dove chi prova a nuotare è condannato al naufragio in una inesorabile deriva. Perché non c’è serial killer più sanguinario e spietato della solitudine e, come recitano i versi conclusivi della poesia che un altro travestito ha scritto e che legge a Radio Cuore Libero, “Siamo soltanto degli esseri solitari / Cui qualcuno / Sarcasticamente / Dà il nome di persone”.

La scrittura di Annibale Ruccello è una fusione di poesia e realtà, che cattura l’essenza della vita quotidiana e la trasforma in arte. Con uno stile ricco di immagini evocative e dialoghi vibranti, spesso anche di grande umorismo, Ruccello trascina lo spettatore in un mondo di emozioni e sensazioni, con un linguaggio, mix di dialetto napoletano e italiano, che conferisce autenticità e profondità ai suoi personaggi e alle loro interazioni. Grazie alla sua capacità di penetrare nelle sfumature più intime dell’animo umano, Ruccello ci ha regalato opere che restano impresse nella memoria per lungo tempo. Una delle caratteristiche distintive della poetica di Ruccello è la sua capacità di creare personaggi complessi e sfaccettati che rimangono vividi nella mente dello spettatore anche dopo la fine dello spettacolo. I suoi protagonisti sono spesso individui marginali o emarginati, che lottano per trovare il proprio posto nel mondo e per comprendere il senso della propria esistenza. Attraverso di essi, Ruccello esplora temi universali come l’identità, la libertà e la ricerca di significato, offrendo uno sguardo acuto e penetrante sulla condizione umana. La poetica di Ruccello è caratterizzata da una profonda sensibilità sociale e politica, che si riflette nei temi e nei contenuti delle sue opere. Le sue opere affrontano temi come la discriminazione, l’oppressione e l’ingiustizia sociale, offrendo uno sguardo critico sulla società contemporanea e sulle sue contraddizioni. Attraverso di esse, Ruccello si è impegnato a mettere in discussione le convenzioni sociali e a promuovere una visione più inclusiva e solidale del mondo. La scrittura ruccelliana è caratterizzata da una profonda ricerca estetica e formale, che si manifesta nella sua sperimentazione con forme e linguaggi teatrali innovativi. Le sue opere sono spesso caratterizzate da una struttura non lineare e da un uso audace della forma e del linguaggio teatrale, che sfidano le convenzioni e stimolano la riflessione critica, esplorando i limiti e le possibilità del teatro come forma d’arte, offrendo uno spazio per la creatività e l’espressione individuale.

La regia di Geppy Gleijeses offre al pubblico una visione realistica e autentica dei personaggi, evitando ogni forma di artificio e superficialità. Grazie alla sua sensibilità e maestria, Geppy riesce a trasportare il pubblico nell’intimità delle vite di Jennifer e Anna, facendo sentire il pubblico come se fosse parte della loro storia. La scelta di far cucinare realmente Geppy Gleijeses sulla scena, preparando il sugo con la cipolla e facendo il caffè, è un elemento che contribuisce in modo significativo all’aumento del realismo della rappresentazione. Grazie a questa decisione registica, gli spettatori non solo assistono alle azioni dei personaggi, ma sono immersi completamente nell’ambiente scenico, percependo gli odori e gli aromi che si diffondono in platea. L’odore della cipolla che si soffrigge, il profumo del caffè appena preparato e persino l’odore dello smalto, tutto ciò contribuisce a rendere l’esperienza teatrale più autentica e coinvolgente. Questo approccio sensoriale non solo aumenta il realismo della rappresentazione, ma permette anche al pubblico di connettersi in modo più profondo con i personaggi e le loro vicende, creando un’esperienza teatrale indimenticabile.

Le performance di Geppy e Lorenzo Gleijeses sono semplicemente straordinarie. Geppy, nel ruolo di Jennifer, offre una gamma completa di emozioni, passando dalla speranza alla tristezza ed alla più profonda disperazione con una naturalezza e una profondità che toccano il cuore dello spettatore. Fino all’arrivo in scena di Anna, Geppy Gleijeses valorizza magistralmente gli aspetti tragicomici del testo ruccelliano, per poi cambiare radicalmente registro nel finale, confermando ancora una volta la sua notevole versatilità attoriale. Lorenzo è abilissimo a rendere le nevrosi di Anna, la sua religiosità al limite della superstizione, il suo legame morboso con la gatta Rosinella, con una mimica facciale impressionante. Quando Anna brandisce il portafotografie dove dovrebbe esserci la foto di Franco e lo mostra, vuoto, a Jennifer e al pubblico, il suo sguardo è un vero pugno nello stomaco ed è il momento in cui Jennifer matura la consapevolezza della sua disperazione. La sensazione è che, nonostante la scelta registica di tagliare il delirio di Jennifer, proprio sulla veemenza di quello sguardo si regga la coerenza con il tragico finale, che risulta ancor più drammatico, in quanto scaturente da una lucida consapevolezza e non come culmine di un delirio.

Molto ben curati la scenografia di Paolo Calafiore e i costumi di Ludovica Pagano Leonetti, che contribuiscono a immergere gli spettatori nell’ambiente oppressivo e surreale del quartiere dei travestiti. La colonna sonora curata da Matteo D’amico, insieme alle luci di Luigi Ascione, aggiungono ulteriore profondità e atmosfera allo spettacolo, creando un’esperienza multisensoriale che lascia un’impronta indelebile nello spettatore. Essenziali nella rappresentazione anche i contributi registrati di Nunzia Schiano (la voce della radio) e di Gino Curcione, Mimmo Mignemi e Myriam Lattanzio.

“Le cinque rose di Jennifer” sarà in scena al Teatro Sannazaro di Napoli fino al 17 marzo 2024.

Link: il sito del Teatro Sannazaro di Napoli – www.teatrosannazaro.it