Di: Alessandra Staiano

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Flusso di coscienza, racconto surreale e contemporaneamente divertente, invettiva violenta, ma immediatamente dopo invenzione poetica da far venire i brividi. Diventa tutto questo la parola quando a plasmarla è Peppe Lanzetta che in «Prima Vedere Cammello» si alterna sul palco con il maestro Jennà Romano, assai bravo nel far diventare anche il mandolino uno strumento modernissimo, e l’attrice Rosalba Di Girolamo. A Salerno, dove la prima è andata in scena sabato 15 dicembre, il palco di Studio Apollonia è lo spazio dell’altare di una chiesa sconsacrata incastonata nei vicoli del centro storico. Palco che non ha bisogno di altra scenografia, location che rende assai interessante il contrasto tra il sacro del luogo e il profano, profanissimo dire di Lanzetta, Romano e Di Girolamo. Ma forse il contrasto ancora più forte è quello tra una Salerno dove una fiumana di turisti e visitatori rende omaggio, anche quest’anno, alla bella invenzione della Luci d’Artista, in quello che è diventato un nuovo «rituale» delle festività natalizie campane ma che non appare più autentico di altri, e la Napoli che Peppe Lanzetta racconta. Ancora una volta. Sempre con la stessa intensità. Più vera di qualsiasi cartolina, sebbene sia una città solo evocata.

Città sfacciata e indomabile dove nel primo monologo «C’hanno fatto ‘o pacco» Lanzetta ricorda come per troppo tempo la camorra sia stata considerata e abbia funzionato da vero e proprio ammortizzatore sociale (come interpretare altrimenti l’abusato e ricorrente «tanto s’ammazzano tra di loro»?) e ora Scampia viene indicata come un tumore, quasi bastasse nominare la parola per estirpare il male.

Le invenzioni musicali, affidate all’esecuzione di Jennà Romano, che fanno da intermezzo ai «blocchi» narrativi sono spesso delle scoperte assai piacevoli: come la traduzione in napoletano del brano «L’uomo in frac» di Domenico Modugno, tratto da un precedente spettacolo dal titolo «Malaluna» per la regia di Pasquale De Cristofaro e interpretato da Rosalba Di Girolamo. Non è l’unica citazione: dal Pier Paolo Pasolini de «La mia nazione» al Piero Ciampi di cui viene tradotta in napoletano la canzone «Il vino», Lanzetta disegna un ideale e personale «pantheon» dove un posto speciale viene assegnato a «don» Raffaele Viviani, con cui immagina un dialogo impossibile. Viviani, quello sanguigno e popolare della «Rumba degli Scugnizzi», quello che più e meglio di altri è riuscito a raccontare la Napoli spietata e beffarda che Lanzetta evoca nei suoi monologhi. Una città che forse, ora come allora, è specchio anche di altri luoghi, magari quelli bagnati dallo stesso mare. Come Lampedusa «dove ‘o mare è ‘nfuso», il ritornello che a mò di suono ipnotico chiude il racconto che Lanzetta porta in scena.