Di: Sergio Palumbo

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La vicenda dell’ultimo romanzo di Andrea Camilleri, “Una lama di luce”, è articolata come non mai sul sovrapporsi del piano professionale e di quello sentimentale e umano, i cui chiaroscuri condizionano in modo sempre più cogente l’esistenza del suo protagonista, sempre più incline alla malinconia della solitudine, dell’età che avanza, dei rendiconti non sempre all’attivo. Una sorta di sogno premonitore non a caso gli ha messo davanti agli occhi della fantasia, quasi immagine chiave del rebus esistenziale, una bara abbandonata in una landa deserta. Ma Montalbano non è certo uomo da abbandonarsi a sterili elucubrazioni filosofiche o a inerti ripiegamenti su se stesso. E’ uomo d’azione, di cui nel commissariato di Vigata non mancano certo le ragioni e le occasioni. C’è un’indagine per rapina, un’altra per traffico d’armi e c’è un movimento sospetto di opere d’arte. Ma c’è anche il farsi strada prorompente di una passione amorosa che sembra eclissare ogni altro interesse e minaccia di distruggere il lungo legame con Livia. Montalbano non sa risolversi: delle due donne l’una è il presente con la sua carica di desiderio e di infuocate promesse, l’altra è il passato con il suo peso di incomprensioni ma anche di ricordi, di tenerezze, di piccoli e grandi eventi condivisi. A decidere sarà la sorte, che ancora una volta si diverte ad intrecciare la vita reale e professionale a quella più intima dei sentimenti.
La conclusione del romanzo è all’insegna di quell’umanità profonda che solo i più grandi autori di gialli sanno unire al gusto per la ricerca poliziesca. Come Georges Simenon, Camilleri non vuole solo proporre al lettore un ben articolato rebus da risolvere né vuole stupirlo con strepitosi colpi di scena. C’è in ogni suo romanzo un piccolo mondo con i suoi drammi e le sue farse che s’inscrive nel più grande mondo, scrutato con la pensosa ironia dell’autore, che non pretende di disegnare facili metafore della vita, ma ce ne rende il gusto dolceamaro, così vicino all’esperienza di ciascuno.

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