Di: Sergio Palumbo

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Un testo teatrale in quattro atti, una “commedia storica che non si attiene alla storia”, “Romolo il Grande” di Friedrich Durrenmatt è spassoso e al tempo stesso profondo, divertente ma anche spietato, bizzarro e anche cinico. Protagonista ne è l’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto, detto Romolo Augustolo. Durrenmatt è abilissimo a presentarcelo nei primi due atti come un inetto buffone, più interessato alle sue galline che alla tragedia della fine dell’impero romano, con i barbari alle porte di Roma e Odoacre pronto a diventare il primo re barbaro di Roma. E’ sconvolgente la spensieratezza e la serenità di questo imperatore scellerato ed indolente, la cui unica preoccupazione è mangiare, dormire e svendere i busti degli imperatori ad un antiquario in cambio di pochi soldi. Oltre, ovviamente, occuparsi dei suoi polli. Insensibile rispetto alla rovina dell’impero, del catastrofico stato delle casse imperiali, intralcia anche l’estremo tentativo di salvataggio dell’impero facendo sposare sua figlia Rea con l’industriale Cesare Rupf, che avrebbe sborsato il denaro necessario a mandar via Odoacre.
Ma quest’uomo che per vent’anni tutti hanno ritenuto un buffone, in realtà stava perseguendo un disegno molto più grande: Romolo Augusto si erge a giudice dell’impero romano e lo condanna a morte a causa della sua corruzione, del sangue inutilmente versato, sia per cause di guerra sia per mero divertimento. Romolo troverà man forte in Odoacre, che, seppur dipinto in modo diverso, è anche lui un appassionato di polli e teme che il nipote Teodorico lo ucciderà per diventare un despota sanguinario.
Il testo di Durrenmatt, scanzonato e buffonesco nei primi due atti, diventa un vero e proprio monito nell’ultimo atto: è un invito alla riflessione, una sferzante denuncia contro tutte le tirannie e contro tutte le perversioni ad esse legate, un testo contro la guerra ambientato nel quinto secolo dopo Cristo, ma che mai come in questi giorni torna di particolare, raccapricciante, attualità.

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